Mi sono sempre domandato perché i primi interpreti di un’opera non sentissero il bisogno, loro od i loro mentori, di registrare le pagine di quei titoli eseguiti in prima assoluta. Il caso più evidente sono i numeri solistici di Calaf e Turandot ad opera di Miguel Fleta e Rosa Raisa. Potrei aggiungere Hericlea Darclee, prima Tosca ed Iris, che ricusò, sempre, di registrare la propria voce. E più ancora Rosina Storchio, che non fissò mai sul supporto fonografico Butterfly a differenza di Siberia. Si potrà eccepire che la tenera giapponesina pucciniana fu legata ad un infelice momento personale ed artistico, ma la Storchio, passata la prima e “rimessa a modello” l’opera, fu sulle scene spessissimo Butterfly sino al ritiro dalle scene quasi vent’anni dopo la sfortunata prima.
Dei primi esecutori di Adriana Lecouvreur: Angelica Pandolfini, Enrico Caruso e Giuseppe de Luca esiste una testimonianza per ciascuno dell’opera di cui furono i primi interpreti. Preciso autentica fortuna nel caso di Angelica Pandolfini, cantante di carriera italiana e, quindi, di limitato avvicinamento alla sala di registrazione, strano in quello di Caruso, dalla sterminata discografia, che non fu solo il primo esecutore a Milano nel 1902, ma anche in occasione della prima al Met nel 1907. Se pensiamo che della prima esecuzione di Butterfly al Met la parte della protagonista, incarnata da Geraldine Ferrar, è documentata quasi completamente, anche Adriana rientra nell’ipotesi di una parsimoniosa documentazione. Quindi va detto subito non è sufficiente a capire come questo tre grandi cantanti eseguissero l’opera a partire dalla protagonista cui è richiesta una prestazione non solo in termini di puro canto. I dischi della Pandolfini -pochissimi ripeto- devono essere ascoltati con l’ausilio di Eugenio Montale che, proprio riferendosi all’Adriana, affermò nel 1948, che la registrazione rendeva pochissimo della poderosa cavata e dell’ampiezza della voce del soprano spoletino. Non dimentichiamo che oltre la “nuovo” repertorio, di cui fu una patronessa, la Pandolfini eseguiva Aida e Sieglinde di Valchiria. Che la voce fosse di tonnellaggio superiore a quello di un d’un soprano lirico lo si intuisce in certe frasi dove si ha l’impressione proprio della grande cavata vocale come nel passo in cui la cantante realizza una bella forcella a “‘eco del dramma” e successivamente al “mite gioconda atroce” si riesce ancora ad avere l’idea di una voce importante. Che la voce e la tenuta di fiato fossero considerevoli è evidenziata dal fatto che la cantante sostiene un tempo lentissimo, sopratutto nella prima sezione della’aria (aggiungo non è più sostenuta l’andatura di nessuna di altre interpreti dei primi anni, fossero anche soprani di mezzo non sontuoso come Emma Carelli) senza che il legato ed il rispetto della frase musicale possano soffrirne. Inoltre, sostenuta da una dizione scolpita e senza affettazioni e pur in assenza di una dinamica esasperata alla Olivero, ma non c’è frase dove la cantante non passi dal piano o pianissimo al mezzo forte con facilità e nel rispetto delle indicazioni dell’autore. Una immagine di eleganza e verità nel contempo che furono la sigla delle prime dive del verismo del Verismo nobile come la Darclee, la Farneti, la Storchio, la Pandolfini e per certi versi la Ferrani. Aggiungo che la scelta di un soprano di voce sontuosa ed importante in Adriana è consigliata anche dall’impeto e della necessità drammatica di contrastare la principessa al finale secondo. Non dimentichiamo, per avere chiare sulla tradizione interpretativa della Adriana che soprani spinti come Maria Caniglia o addirittura drammatici come la Cobelli furono ritenute le più qualificate attrici delle comédié francaise prima del ciclone Olivero.
La registrazione di de Luca nel monologo che chiude il primo atto e devo Michonette proclama la sua devozione alla donna ed alla attrice è un saggio di qualcosa che oggi abbiamo perso ossia che si può parlare cantando mentre oggi si parla cantando (l’ultimo straziante esempio l’ho dovuto sentire ier sera nella trasmissione televisiva dell’Olandese volante da Firenze a ministero del protagonista)
Non si perde parola del testo di Colautti, anzi si ammira la dizione da attore del baritono romano, la capacità di un’espressione accorata e disingannata (e “rimedio non c’è” è esemplare di Michonette sin dall’inizio) per tutto il brano perchè quella è la cifra del personaggio sempre in quel momento. Quando poi arriva una nota acuta ovvero un mi bem si sente una perfetta operazione di passaggio di registro ed un oscuramento da manuale.
Rimane poi Enrico Caruso nel breve arioso “No più nobile” che è accompagnato al piano dall’autore. E’ il giovane Caruso dalla voce di tenore di grazia all’antica dolce e maschile nel contempo, già con la tendenza ad essere stentoreo ed a privilegiare in qualche frase il canto muscolare in zona acuta e qualche suono un po’ aperto in zona medio grave. anche se nella conclusione quando canta piano le frasi conclusive si comprende il fascino che sul pubblico contemporaneo Caruso esercitò. Nel caso di Caruso proprio perchè al piano siede Cilea vale la pena di proporre l’arioso del secondo atto “l’anima ho stanca” cantato da Fernando de Lucia, che abbassa naturalmente. Rispetto allo spartito il tenore partenopeo, ad onta della presenza di Cilea al piano, si prende quelle libertà di tempi e di dinamiche, che fanno, nel contempo, di de Lucia in tenore più amato e più odiato che abbia inciso dischi. Certo che de Lucia sia e faccia de Lucia è chiarissimo, si possono ammirare i pianissimi ed i diminuendo come le messe di voce, che il pubblico degli ultimi cinquant’anni crede monopolio delle voci femminili come l’Olivero, ma il modo di accentare e cantare rende Maurizio la più completa raffigurazione del vitellone italico, leggermente lamentoso e un po’ mammone, che deve districarsi fra più talami. Ed in fondo che cosa è Maurizio? Al cultore dell’opera e della registrazione antica mi viene spontaneo chiedere se le scelte musicali di de Lucia siano il fardello che Cilea doveva sopportare o fossero condivise dall’autore?
3 pensieri su “Adriana Lecouvreur: I tre frammenti dei primi interpreti”
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Certo che, nonostante la vetusta registrazione, il bellissimo colore e il timbro sensuale di Caruso sono impressionanti!
Concordo! Bello anche l’ascolto della voce di Angelica Pandolfini.
Sarò banale ma comunque de Lucia rende bene quello che fa. Se Cilea fosse d’accordo o meno sulle sue scelte interpretative questo chi può dirlo ancora oggi i direttori spesso fanno compromessi con i cantanti figuriamoci i compositori e nel caso di cilea avere interpreti di quello spessore era un biglietto da visita molto più consistente e senza interpreti la musica non vive. Quindi io credo che al di la del periodo storico dove i compositori scrivevano le partiture nel dettaglio forse come mai prima escluso verdi io credo che sia da legittimare e poi mi spiace dirlo ma delucia e unico e come tale poteva cantare quello che voleva. Caruso devo dire non mi fa impazzire ma rispetto la sua arte.