Il melomane in generale, e quello italiano in particolare, di musica e di filologia non capisce un cazzo. L’ennesima conferma a tale regola aurea, viene da talune considerazioni lette a margine del Rigoletto che ha inaugurato l’Opera di Roma. Enrico Stinchelli – noto entertainer radiofonico a cui fa riferimento un folcloristico gruppo di melomaniaci di varia estrazione – si è infatti “scagliato” contro l’adozione della “orrenda” (dice lui) edizione critica dell’opera verdiana predisposta da Martin Chusid in collaborazione con la Chicago University e Casa Ricordi nell’ambito dell’edizione completa delle opere di Verdi diretta da Philip Gossett. Una manica di coglioni, evidentemente, secondo Stinchelli: non si sa da quale pulpito e piedistallo. L’idiosincrasia tutta italiota per la filologia musicale, nel nome di un mal inteso concetto di “tradizione”, è cosa triste e arcinota: inutile soffermarsi sull’insensatezza del fatto per cui mentre nel resto del mondo civile presentare testi corretti di opere del passato (Mozart, Beethoven, Bach, Wagner etc…) sia cosa non solo apprezzata, ma scontata e ritenuta indispensabile, in Italia diventi una fattispecie di reato o un attentato a non si capisce bene cosa. Sta di fatto che quando si parla di presentare edizioni corrette di Verdi, Puccini, Donizetti o Rossini c’è sempre qualcuno che grida allo scandalo! Scandalo dovuto a ignoranza e ottusità. Forse chi starnazza contro le edizioni critiche non sa neppure di cosa parla e, probabilmente, non ne ha mai sfogliata una. L’edizione critica, infatti si limita a confrontare le tante fonti di un lavoro musicale e stabilire un testo il più vicino possibile alla scrittura originale, correggendo i tanti errori – spesso banali sviste dei copisti o semplificazioni editoriali – che nel corso di tanti anni si sono stratificate sulla scrittura autentica. L’edizione critica non si limita a prendere l’autografo e trascriverlo, attribuendo ad esso (come sostengono i vari detrattori della filologia) valore di feticcio assoluto, ma confronta l’autografo con tutte le fonti successive e coeve, tenendo in considerazione ripensamenti e modifiche e fornendo un testo vicino a quello effettivamente originale e, se possibile ed esistenti, arricchendolo con varianti e brani alternativi. Tutto qui. Non trasforma l’opera in un qualcosa di diverso, né impedisce all’interprete di utilizzare quella libertà che ancora per larga parte dell’800 gli era concessa. Certo bisogna intendersi: all’interprete non è concessa qualsiasi cosa e una cosa è Verdi, altra è Haendel. Ci sono questioni di gusto e stile da tenere in considerazione così come la legittimità o meno di cadenze e ornamentazioni (ancora: Verdi non è Rossini). Ma cos’ha di così “orrendo” (secondo il “professor” Stinchelli) questa edizione critica di Rigoletto? Scorrendola, infatti, si nota la correzione di alcune frasi del libretto, la sistemazione di segni espressivi trascurati dai copisti o ignorati, il ripristino di alcune battute e delle cadenze originali di Verdi, la reintroduzione di talune pause, l’eliminazione di alcune “gigionate”, la correzione di dettagli strumentali, legature e accenti…e così via. Interventi che solo in piccola parte sono percepiti dal pubblico e che, al contrario di quanto si legge talvolta, arricchiscono la tavolozza espressiva dell’opera. L’edizione critica non ha la pretesa – e neppure vuole averla – di presentare un Rigoletto “nuovo”, ma semplicemente un testo fedele alle fonti originali per capire, anche, quale è stato il lavoro della tradizione esecutiva successiva. Nulla di scandaloso quindi. Ma Stinchelli va oltre: attribuisce all’edizione critica la morte del capolavoro verdiano accusandola di “tradire” la tradizione che, secondo lui, vale più del segno scritto e così si lascia andare ad autentici strafalcioni. Mi spiace per Stinchelli, ma un segno di corona non vuole dire sempre cadenza, mezza cadenza o variazione: spesso significa solo allungamento della pausa. Poi le regole belcantistiche valide per Donizetti o Rossini, non valgono più per Verdi (non si può variare un da capo di Rigoletto come si varierebbe una cabaletta di Zelmira). Infine le famigerate “puntatore” (quelle che Verdi chiede di predisporre a Donizetti per una ripresa di Ernani) citate sempre a sproposito dai più ottusi antifilologi, non sono gli “acuti” aggiunti: gli acuti tenuti alla fine sono pratica del tardo ‘800 e dei primi ‘900 e nulla hanno a che fare con Donizetti o con Verdi. Se ne faccia una ragione il Sig. Stinchelli, così come si ripassi un po’ di musicologia se vuole discettarne così magari da capire che il termine “puntatura” è inteso in senso sartoriale, cioè come aggiusto, accomodo e non come “inserimento di acuti”: lo si può accettare da un loggionista parmigiano che del termine puntatura capisce solo “punta” e per traslato “acuto”, non certo da un sedicente esperto di opera che trancia giudizi sul lavoro di chi ha competenze musicologiche incontestabili. E mi chiedo pure se Stinchelli abbia non solo sfogliato l’edizione critica di Rigoletto, ma pure la tradizionale edizione Ricordi dove non c’è traccia di quegli acuti, quelle cadenze, quelle “gigionate”, la cui eliminazione ritiene colpa dell’edizione critica. Il capolavoro però arriva quando attribuisce all’utilizzo del testo critico le mende vocali degli interpreti ed il fatto che l’orchestra spesso sovrasti i cantanti: cioè se gli interpreti sono scadenti e la direzione pesante la colpa è dell’Università di Chicago che nel 1996 ha pubblicato la sua edizione critica? Stinchelli rappresenta in questo il loggionista medio, quello che popola i racconti di folklore teatrale, quello che cronometra gli acuti, e che è disposto a dire che ha sbagliato Verdi a scrivere in pianissimo il si bemolle di “Celeste Aida”. Rappresenta cioè quella larga parte di pubblico italiano che ha dell’opera un’idea circense e pop, e che pretende di ritrovare in ogni titolo la solita sequela di gigionate che si è abituato a sentire, tra ricordi personali ed arteriosclerosi: incapace cioè di andare aldilà della propria idea su un titolo evidentemente stranoto e che bolla come “sbagliato” qualsiasi approccio differente al suo. Rappresenta quella parte ottusa di ascoltatori che non riesce a ficcarsi nella zucca che un’edizione cartacea di per sé non limita nulla e nessuno (se non ovviamente alla correttezza del testo), ma lascia al contrario maggior libertà all’interprete che è più consapevole dell’originale. Del resto in nessuna edizione (critica o meno) sono presenti le prassi di tradizione che, è bene ricordarlo, sono arbitri che se avevano una ragion d’essere 70 anni fa, oggi ne hanno molta meno. E poi in cosa sarebbe migliore il Rigoletto vecchia maniera? Sono necessari tutti quelli acuti (fuori stile e insensati, divenuti prassi solo negli ultimi anni dell’800) a chiusura delle cabalette? Sono necessari gli inserti di cadenze poco significative laddove Verdi stesso ne scrisse di originali? Peraltro è buona norma musicale – è l’opera, nonostante dicano certi melomani, E’ ancora musica – che laddove un compositore avesse scritto una cadenza autografa nel corpo del testo, questa non possa essere sostituita con altre. E’ necessario berciare e tenere all’infinito “un vindice avraaaaaaaaaaaai” (musicalmente abominevole) per attaccare senza soluzione di continuità il “Sì vendetta”? Nessuno toglie valore alla storia esecutiva, al mito dei grandi interpreti, alle stratificazioni della prassi che non vanno negate, ma comprese come fenomeni che rispondono a circostanze culturali e temporali ben precise e che non possono e non devono essere cristallizzate in un dogma. Sarebbe come ostinarsi a leggere una vecchia copia di un romanzo pieno zeppo di errori di battitura solo perché lo leggeva così il nonno…ma per l’opera evidentemente il buon senso non vale – almeno per una larga fetta di melomania – che scambia il teatro per una gara di berci e gigionate: si è letto di tutto nel caravanserraglio del gruppo de La Barcaccia, da chi è perplesso perché nel finale Rigoletto non sbraita come un ossesso “Gilda” a chi è infastidito per gli “staccati”, da chi sostiene che la filologia è dannosa per i cantanti a chi si lancia in sproloqui musicologici…ma nessuno parla di ciò che ha scritto Verdi, perché – evidentemente – non ha alcuna importanza di fronte al brutto ricordo della ultima brutta cattiva esecuzione ascoltata che taluni si ostinano a chiamare “tradizione”.
24 pensieri su “Stinchelli, Rigoletto e la filologia.”
Lascia un commento
Devi essere connesso per pubblicare un commento.
Concordo in tutto e per tutto con Duprez. Le edizioni critiche aiutano a comprendere meglio quello che originalmente i compositori avevo ideato, liberando testo e musica da tutto quanto è stato aggiunto in seguito. Sono uno strumento che sicuramente deve essere valorizzato e di più usato qui in Italia, chissà perché gli italiani sembrano così ancorati alla tradizione? A me personalmente dopo aver ascoltato o visto un’opera filologicamente riconstruita ascoltare la stessa “da tradizione” pare che sia incompleta, eccetto quando la canta la Callas haha, infatti sebbene la sua Anna duri quasi un’ora in meno di quanto dovrebbe è sempre la mia preferita.
La prima frase mi ha fatto rotolare dalle risate.Comunque non é che le edizioni critiche sono sbagliate in se ma bisogna vedere come le si usano! Certa musica ovviamente ha bisogno di una visione più approfondita dal punto di vista editoriale perché magari più antica vedi Bach ma non si può negare che le edizioni urtext siano ormai diventate quasi una moda. Esempio pratico: le sonate di Beethoven edite da casella non sono così scadenti rispetto a quelle urtext edite da mastroprimiano o altri fortrpianisti specialisti perché come lo stesso ricorda nelle sue prefazione le sue revisioni sono basate interamente sugli autografi laddove presenti. Poi é chiaro che un opera rispetto a una sonata ne passa Di carta da musica da analizzare ma comunque il mio scetticismo é legato più che altro alla repulsione di certi esperti nei confrontinti del passato. Io credo che il musicista quando decide di eseguire debba prendere in considerazione tutto anche gli sviluppi vuoi a volte non in stile del tempo relativamente passato perché comunque il resto non filologico obiettivamente non é così distante dall’originale anzi a volte i manoscritti erano così scarni che le revisioni erano necessarie penso ovviamente a Bach ma anche mozart e Beethoven. Dal 900 in poi é una presa in girio proporre edizioni urtext perché compositori come stravinsky scrivevano tutto senza tralasciare nulla. Quindi in conclusione per l’opera ritengo queste edizioni utili per la musica strumentale ne farei a meno.
Purtroppo per Duprez ormai accade invece il contrario di ciò che è affermato ad inizio articolo. Abbiamo un pubblico che si riempie la bocca di edizione filologica, seconda versione, autografo, così voleva Rossini etcetc per giustificare l apprezzamento di produzioni vergognose, sotto il limite dell udibile, musicalmente dilettantesxo. Ogni schifezza malcantata e storpiata porta il sacro suggello della filologia e tutti ad urlare Evviva Finalmente la lezione autentica. Non c’è melomane che non si picchi di affermare una sua competenza storico filolilogica o una pseudo informata preparazione e legittimazione…….mentre le orecchie e la cultura teatrale latitano. Un altra delle nostre moderne contraddizioni. Nessuna meraviglia dunque che per legittimare o giustificare un Rigoletto modesto si scomodi la filologia….lo si fa per incensare qualunque escremento integrale, figuriamoci per giustificare esecutori di terz’ ordine
Alla fine quello che conta é la qualità esecutiva di quello che si propone la forma anche se non perfetta é passabile se hai di fronte interpreti credibili e solidi tecnicamente. A me infatti non interessa acuto si acuto no cabaletta si o no. Facciano anche l’edizione ricordi ma cantata bene e tutto li il punto.
Non posso che concordare con te e Giulia.
A me importa di sentire (e se proprio devo aggiungere, vedere) un bello spettacolo.
Tempo fa mi sono dovuto sorbire un edizione, suppongo, critica di Anna Bolena. 4 ore e mezza di martellamento di co…. Ma viva i tagli! Manco con La Callas me le godrei, figuriamoci con gli “interpreti filologici/critici” moderni.
Forse ti è sfuggito, Giulia, nella tua consueta crociata anti filologica, che in questo caso (come quasi sempre) è accaduto il contrario: si è voluto attribuire all’edizione critica (scelta che dovrebbe essere OBBLIGATORIA) le mende esecutive…dicendo che i difetti erano dovuti alla veste editoriale.
Poi tu potrai preferire tagli, manomissioni e tutta il materiale fecale (per usare un tuo paragone) di tradizione, ma la scelta del testo non incide sull’esecuzione: purtroppo il melomane italico, il vocione da loggione non sa neppure com’è fatta un’edizione a stampa di una partitura completa e quindi grida allo scandalo ogni volta che legge “edizione critica”
Non ho mai fatto crociate antifilologiche. Crociate contro le cose mal fatte e spacciate per buone giustifi ate dalla filologia magari..si. Smetti di dare lezioni a tutti e di insultare gratuitamente in none di luoghi comuni e baggianate fritte e rifritte. E di insultare gratuitamente tutto e tutti….ma come ti permetti? ! !
Sappiamo benissimo tutti come si snodi un percorso filologico e sappiamo altrettanto bene che senza esecutori resta …carta.
Esattamente.Viene sbandierata l’edizione critica a baluardo di interpretazioni deficitarie per non dire pessime. A che serve togliere il sol al baritono se poi non è in grado di eseguire le forcelle e i pianissimi INTONATI di “Veglia o donna”?
La filologia è uno strumento. Punto e basta. Nessuna filologia può emendare una cattiva esecuzione così come una grande esecuzione non viene sminuita dalla mancata adozione dell edizione critica. Dal Rigoletto di Tibbett all immensa Armida di Maria Callas…..tanto per citarne un paio. O all oppisto la Norma della Bartoli, eswmpio mirabile di galsa filologia…..per he anche lanfilologia ha i suoi falsi. Auguri anche a te !
Faccio parre della categoria dei vituperati filologi (applicati non alla musica ma alla letteratura). I principi sono i medesimi. Ricostruzione del testo secondo la volontà più prossima all’ultima (definitiva) volontà dell’autore. Un metodo, quindi. La penetrazione della filologia nelle esecuzioni musicali, si sa, è stata da noi lentissima; osteggiata, come se fosse sinonimo di orchestrine da stenterelli (penso a Buscaroli) esangui e linfatiche. Molta acqua è corsa sotto i ponti ed è pur vero che i direttori-filologi hanno di gran lunga sviluppato, di generazione in generazione, soprattutto in ambito lirico, una vocazione teatrale che soccombeva talora nelle prime esecuzioni, nelle quali essenziale era, però, non dimentichiamolo, spesso stabilire pionieristicamente un testo critico. La filologia in letteratura come in musica è l’ancella preziosa dell’interpretazione. Svolge un compito di nobile servizio, ma senza il suo supporto si interpretano testi immaginari
La prima frase, lungi dal farmi “rotolare dalle risate”, l’ho trovata – nello stile – uno sgradevole ed evitabile tributo allo spirito dei tempi. Vi è tuttavia una parte di verità: non sempre il melomane ne capisce : prova ne siano le disinvolte affermazioni che anche in questa sede abbiamo sovente letto : perentorie demolizioni di fior di interpreti e finanche di sommi autori ( un Mahler che sarebbe stato ” troppo incensato “, ad esempio recente ). Capirne poco è diritto di tutti, capirne poco e trinciare perentorie sentenze un po’ meno. Il giudizio espresso nell’incipit dupreziano è il motivo per il quale trovo gli schiamazzi e i buh spesso inopportuni: di norma partono da melomani, che – Duprez dixit – di musica non capiscono etc. etc. etc. Trovo però sbagliato ricadere nel perenne e provinciale autolesionismo italico: i melomani stranieri sono, se possibile, peggio di quelli nostrani ( anche se di norma più educati e molto meno presuntuosi ). Lo dico da indefesso viaggiatore di teatri. Non ho interesse sufficiente per Rigoletto tale da rendermi competente a entrare nel merito della discussione: posso solo dire che condivido pienamente il discorso sulla necessità e legittimità della filologia ( infatti brillantemente confermata da enio ). Trovo però improbabile che un semplice appassionato possa accostarsi senza problemi a una partitura ( partitura, non spartito ), sia esso melomane italico o straniero. La cosa – francamente – non mi sembra grave ma normale. Sarebbe a mio avviso tuttavia opportuna, da parte dell’appassionato e dilettante melomane, un’ abbondante dose di umiltà nei giudizi.
La battutta, che di una battuta si tratta, su Mahler è mia e mi assumo la responsabilità di aver offeso chi adora il SOMMO compisitore. Sul fatto che per eseguirlo basti una brava orchestra non l’ho detto io ma un suo SOMMO interprete in risposta a chi lodava in modo sperticato le sue esecuzioni nella Milano di oltre venti anni fa….forse anche lui voleva solo fare una boutade…comunque fa riflettere.
Gianmario forse non ho espresso in maniera chiara quello che volevo dire ma la.mia non é una risata di assenso o Di compiacimento. Perché chi si erge dall’alto della rocca e fa il profeta senza esserlo per forza Di cose fa ridere. Inoltre giusto per completare il mio discorso io non sono contro la filologia ma contro l’uso insensato che a volte si fa di essa. É chiaro che nell’opera le edizioni critiche sono un valido supporto per l’esecutore ma porre la questione filologia come centrale nelle produzioni moderne distoglie da una cosa che per me é l’unica essenziale e cioè il buon canto. Ridicole le edizioni urtext, vedi le ballate di Chopin edite dalla henle poi leggi la prefazione e vedi che sono la copia della prima edizione stampata. Quindi dipende dai casi secondo me ma nel repertorio strumentale Bach escluso ne farei a meno io e il portafogli.
Il melomane, per definizione, non è né filologo né musicista. Il melomane ha gusto e orecchio e con quelli giudica. Se un acuto di tradizione è bello, perché dovremmo eliminarlo? In nome di cosa e con che diritto dovremmo sacrificare la tradizione? Qui non si parla di superfetazioni, ma di cose belle. Chissenefrega della filologia, se in suo nome devo prosciugare una partizione, epurandola del suo impatto sul pubblico. E vorrei dire, smettiamola con questo snobismo insopportabile nei confronti del pubblico, che -è bene rammentarlo- paga un biglietto ed ha diritto a sentire ciò che gli piace senza essere disprezzato. I teatri non sono dei convegni tra cattedratici di conservatorio e l opera ha origini molto pop. Anche per me un rigoletto senza acuti è brutto. L opera è dei cantanti, non dei direttori, che ormai comandano tutto. E il risultato è che non si sente più una voce decente in giro, ma si parla solo di grandi bacchette.
Totalmente d’accordo.Andrebbe fatta una seria “filologia della tradizione” ,che pur compare qua e là proprio in molti scritti, utilissimi, di questo sito.
Wow che bello essere anch’io bersaglio degli strali di Mr.Duprez, in un certo senso mi sento onorato di queste pregevoli attenzioni, essendo io un assiduo lettore dei suoi scritti. Non capisco intanto questo quantitativo industriale di acido, che forse andrebbe riservato per miglior causa. Quindi, di cosa mi accusa Duprez? Di essere un melomane? Di non capire un cazzo? Di non aver sfogliato l’edizione critica del Rigoletto o qualsivoglia altra edizione? Nel suo “attacco” ho letto un noioso (mi permetta) ripetersi di luoghi comuni para-filologici, su per giù una versione macabra della mitica e divertentissima lezione di S.E. il Maestro dei Maestri all’Università Bocconi in Milano, che sotto vari aspetti era molto più convincente e interessante. Ebbene sì, signor Duprez alias Non-So-Chi:per me quel librone rosso proveniente dalla Chicago University Press è la tomba del Rigoletto, ma non perché non rispetti i segni apposti nel manoscritto originale e nemmeno perché vi sia un grande lavoro dietro. No. E’ la tomba del Rigoletto perché quel librone viene letto malissimo da personaggi come Lei, Duprez. Persone come Lei ,che non sono melomani ,sono però degli onorati becchini ,con tutto il rispetto per questo purtroppo necessario mestiere.Le spiego il perché. Vede,proprio gli eminenti studiosi che si sono impegnati e occupati di questo lavoro a un certo punto, onestamente, scrivono (pag.XXV cap.3: ” I problemi che sorgono…nell’eseguire Rigoletto seguendo questa edizione possono essere divisi in due distinte categorie :le difficoltà inerenti alla notazione verdiana e quelle che riflettono LA NOSTRA CONOSCENZA LIMITATA (sic!) delle pratiche esecutive della metà dell’Ottocento….(…) Questa edizione critica non può aspirare a pronunciarsi su tale materia,in quanto DEVE necessariamente limitarsi a presentare l’opera tal quale Verdi la scrisse.” Quindi, caro Duprez: un conto è l’opera tal quale viene scritta (e ben venga) ,un conto è l’opera con le sue brave variazioni. E qui si entra nel mare magnum delle INTERPRETAZIONI e se vogliamo della vituperata TRADIZIONE. Il discorso sarebbe lunghissimo, infinito. Ai tempi di Verdi si contarono 7 diverse cadenze per La donna è mobile, l’ultimo Ah,la maledizione ha visto aggiungere sol, la e persino si bemolli acuti dai vari baritoni, e così via. Si dovrebbe allora parlare di gusto, di stile, di opportunità, ma soprattutto di CHI hai sul palco a cantare le singole parti. Il mio discorso, se vogliamo un pò semplificato in questa sede (ma proprio ieri un nome illustre come Paolo Isotta mi ha invitato a dibattere pubblicamente con Lui su questo argomento: se permette, Duprez, ne sono lusingatissimo e approfitto io a invitare Lei, qualora ne abbia voglia, magari in incognita veste o nascosto dietro a un paravento, qualora voglia restare anonimo) , dicevo, il mio discorso si limita a questo: se hai un Duca con re naturali ,si naturali in tasca…perchè no? Che chiuda con il si la Canzone e la cabaletta col re. Se hai Gilda soprano leggero ,che faccia i suoi mi bemolli e anche il mi,perchè no? Se hai un baritono come Cappuccilli, Milnes, McNeil…che fa ? Elimini i sol e i labemolli?? Il marito che far dispetto filologico alla moglie si taglia le palle? Anch’io non amo molto quel sol di “E’ follia” …e MAI lo chiederei a molti baritoni di oggi.Ma provate a togliere a Nucci il la bemolle della Vendetta ? E’ un’azione idiota non filologica, è ILLOGICA, antiteatrale. Mentre è DOVEROSA con baritoni che si strozzano. Poi ci sarebbe la questione dei punti di corona…ma ne parliamo un’altra volta. BUON NATALE A TUTTI , W Verdi, W il TEATRO VIVO.
È triste leggere questa marea di luoghi comuni e di certezze esecutive ben presentate dalle versioni “critiche” che hanno la presunzione di presentare “quanto di più vicino alla volontà dell’autore” e che invece non capiscono che stanno solo presentando la ” volontà dell’editore” e nulla di più. Le versioni stampate sono le versioni base, come la Panda, pensate semplicemente per la maggiore diffusione possibile di un titolo, diffusione che si traduceva in maggiori proventi in primis per l’editore stesso. Quindi le cadenze originali dell’autore non hanno mai “note di bravura” e sono spesso musicalmente di una banalità notevole, fatte proprio per permettere ad ogni cantante di “arrivare in fondo” a prescindere dalle proprie capacità. Questa necessità diventa evidente nel famoso do della pira che scritto con tale lunghezza rappresenterebbe un errore madornale che nessun compositore sano di mente farebbe neppure oggi, (figuriamoci persona di fama ed esperienza come Verdi) perché obbligherebbe fortemente ogni interprete che mai opterebbe di sua volontà per il sol, limitando di fatto la diffusione e fattibilità del titolo. Quindi, si eviti di parlare di volontà autoriale (che inizia e finisce nella migliore riuscita del proprio spettacolo), e si cominci a parlare di volontà “direttoriale” ner crearsi un proprio peculiare taglio esecutivo che con la volontà dell’autore non ha nulla a che fare.
Esattamente.
Sono d’accordo in buona parte con quello che scrive lei, tuttavia, mi sento di appartenere a quella fetta di amanti della musica chiamata “melomani”. E sinceramente, ci sta tutto, ci sta fare una bella critica come è uso in questo blog, ma qui è stato abbastanza oltrepassato il limite. Insultare così a caso, insomma, mi sembra veramente meschina come cosa. buon natale
filippo, 22 anni, milano
Buon Natale giovanissimo Filippo. Vedendo la tua età ho riflettuto che alla tua età mi vedevo a Venezia la Marylin e la Lella nel Tancredi o l’ultimo Kraus in Lucia con la Serra…..scusa il colpo di arteriosclerotica nostalgia……
Tranquillo Donzelli, amo questo genere di cose. beh che dire, ti invidio moltissimo, se penso che Kraus, uno dei miei miti tenorili, ho potuto solo ascoltarlo in cd o vederlo in video. io ho “solo” avuto l’onore di incontrare la Kabaivanska a Cremona durante una rappresentazione…
Scrive Helen M. Greenwald nel programma di sala dell’Attila scaligero (pp.49/50): ” L’opera rappresenta una sfida eccezionale per gli studiosi, perché essa resta un’entità fluida. Ciò che contraddistingue la fluidità dell’opera lirica è il fatto che essa si realizza pubblicamente, attraverso le produzioni e gli allestimenti. Il curatore dell’edizione di un’opera deve sempre chiedersi: c’è una versione finale dell’opera che non sia soggetta a un costante adattamento del contesto? Quanto va perduto nella trasmissione? Quali fonti ci rimangono a testimoniare il passato dell’opera? Il problema è accentuato dal fatto che gli ambienti operistici sono per definizione camaleontici, soggetti alla disponibilità e capacità dei cantanti, alle richieste del pubblico, alle revisioni dei compositori, alle prassi locali, alla censura e, soprattutto al gusto. La realtà di un’opera lirica, almeno per quanto siano in grado di accertare gli studiosi, resta sepolta in qualche luogo fra la grande quantità di materiale che i compositori hanno lasciato (…) e le consuetudini sociali ed esecutive che esercitavano un’influenza sull’editore sia direttamente che indirettamente”. Scusate la citazione ma penso che in poche righe non si possa dire meglio.
Mi sarei aspettato una risposta di Duprez alle argomentazioni di Stinchelli di solito non si tira indietro quando c’è una discussione , e controbatte 🙂
Ma Duprez che fine ha fatto? Dopo questa storia è sparito. Perché? Qualcuno sa qualcosa?