Negli anni ’90 una volta esaurita o ridimensionata la frequentazione del repertorio rossiniano e belcantistico Samuel Ramey frequentò molto il repertorio verdiano. I risultati furono alterni e talora censurati perché se da un lato si ammirava lo splendore dell’emissione e l’eleganza del cantante dall’altro, e spesso, si eccepiva la carenza di autentica voce verdiana per ampiezza e penetrazione. Ora alla prese con il Padre Guardiano ed anche Filippo ed il sommo sacerdote Zaccaria l’osservazione aveva pertinenza se non fosse che la superiorità tecnica di Ramey facesse dimenticare i limiti strettamente vocali.
Per un pubblico interessato al fenomeno della storia del canto il basso americano poteva, parzialmente, ricollegarsi alla tradizione di certi bassi cantanti presenti sulle scene sino ai primi decenni del secolo scorso. In quest’ottica deve essere ascoltato l’Attila di Ramey, già documentato nella serata scaligera e che vogliamo proporre in occasioni di due debutti quello assoluto nel ruolo alla New York City opera, il suo primo teatro importante ed al debutto italiano a Venezia, qui penalizzato dalla direzione di Gabriele Ferro.
Per paradosso questo Attila avrebbe dovuto avere come protagonista femminile Maria Chiara, anch’essa sulla carta voce non esplicitamente verdiana e definita donizettiana. Utilizzare il termine donizettiano significa poco o meglio è entrato nel linguaggio comune per dire un cantante che predilige piani e pianissimi, una linea vocale castigata ed una visione intimistica del personaggio. Chi abbia ascoltato Maria Chiara ieri, ed ascolti il Ramey di questi due debutti sentirà anche un legato sempre solidissimo, mai l’indulgere ad effetti di parlato o di facile espressione, precisione ai segni di espressione e a scandagliare ogni risvolto del personaggio oltre che una attenzione al canto di agilità questa sì di matrice precedente. Poi il solito dilemma ovvero se i primi interpreti fossero così o meno. Risposta impossibile o difficile perché probabilmente i primi esecutori, quelli donizettiani avevano una varietà di accento che mal si sarebbe conciliata con l’errata idea del canto verdiano a pieni polmoni, che certa tradizione ha accreditato.
Giuseppe Verdi
Attila
Attila – Samuel Ramey
Odabella – Marilyn Zschau
Ezio – Richards Fredricks
Foresto – Enrico Di Giuseppe
Uldino – James Clark
Leone – Dan Sullivan
Orchestra & Chorus of the New York City Opera
Sergiu Commissiona
New York City Opera, 13 Marzo 1981.
Prologo
Atto I
Atto II
Atto III
Attila
Attila – Samuel Ramey
Odabella – Linda Roark-Strummer
Ezio – William Stone
Foresto – Veriano Luchetti
Uldino – Aldo Bottion
Leone – Giovanni Antonini
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice di Venezia
Gabriele Ferro
Venezia, Teatro La Fenice, Gennaio 1987.
Come cantassero i primi interpreti è purtroppo (o per fortuna) impossibile verificare. Forse è anche poco rilevante (la musica è ciò che comunica all’ascoltatore contemporaneo attraverso un processo evolutivo che passa per tante variabili e circostanze). Di certo l’approccio “donizettiano” è sensato: Verdi scriveva per cantanti che praticavano Donizetti Bellini e Rossini… Non ho mai creduto all’esistenza della “voce verdiana” come categoria dello spirito. Esiste una scrittura, un linguaggio che gradualmente si sposta dal modo precedente e che arriva sino ai margini del ‘900. Di certo – come scrive giustamente Domenico – l’idea di canto verdiano a pieni polmoni, berciato in una gara di gigionate ed acuti tenuti (cara a certo loggionismo parmigiano ed a certi conduttori radiofonici) è un portato deteriore di certa tradizione.