Stanno già fervendo i preparativi mediatici per l’inaugurazione della Scala fissata per il 7 dicembre con Attila, titolo nell’ultimo quarantennio rappresentato anche troppe volte e che per la prima volta assurge ad opera inaugurale. Non è questa la sede per valutare se Attila sia o meno opera da 7 dicembre anche perché mi sfuggono le peculiarità del melodramma esemplare per il 7 dicembre. Oltre quarant’anni or sono il Sant’Ambrogio fu dedicato ad Italiana in Algeri, che nella tradizione e nel gusto del pubblico milanese era opera da 9-10 dicembre ovvero il secondo titolo della stagione operistica, che ne seguiva l’inaugurale grandioso e famoso.
Il motivo è altro. Si vuole dire che con questa scelta, preceduta da Giovanna d’Arco, il primo Verdi, quello degli anni di galera è sdoganato e può inaugurare la Scala. Per smentire la pubblicità la prima stagione scaligera nell’appena rinnovata sala del Piermarini fu inaugurata da Nabucco, che del primo Verdi è uno dei titoli più famosi e rappresentati e sul Macbeth di poco successivo (1952 Callas, de Sabata) sono corsi fiumi di inchiostro. La vulgata che i paraculi di teatri e loro annessi onnipotenti uffici stampa venderanno al popolo bue è che questa scelta sia il coronamento decorsi quarant’anni dalla riscoperta, riproposizione del primo Verdi donatoci dal Macbeth di Abbado piuttosto che da quello di Muti.
Bugie per gli ignoranti e disinformati. Nel lontano 1913, allorché l’altro grande direttore parmigiano ovvero Cleofonte Campanini allestì una stagione verdiana esemplare per i titoli e di una sfavillante ricchezza nelle compagnie di canto, presentò, come titolo inaugurale, Oberto conte di San Bonifacio. La Rai nel 1951, allorché cadeva il cinquantenario della morte di Verdi, produsse e trasmise molti titoli del maestro non limitandosi a quelli post “trilogia romantica”. Alcuni titoli stavano in solaio e non c’era l’idea di riproporli, ma –a conti fatti – la limitazione investiva di fatto solo Corsaro ed Alzira (che vide una prima riproposizione nel 1965 all’Opera di Roma).
Chi volesse scorrere le cronologie dei teatri verificherà le presenze, alcune delle quali davvero costanti come Nabucco, Macbeth, Ernani e magari anche i Lombardi e la Miller.
Ed allora la foja archeologica del Corriere in attesa di questa epifania scaligera ha pensato di riflettere sulle esecuzione del c.d. primo Verdi prima della Verdi renaissance, che possiamo collocare circa intorno alla metà degli anni ’60, momento in cui anche la critica e la musicologia tornarono a riflettere su quella negletta fase verdiana. Riflettere su quella negletta produzione significa ad esempio osservare che la mano di Verdi non era facile e feconda come quella di altri suoi colleghi e che i rifacimenti riuscivano assai meglio degli originali. Ma questi sono temi che il corriere ha percorso tempo fa allorché predispose la “Verdi edission”, dimostrando fra l’altro che le opere di Verdi non sono affatto 27 come ancora in Parma credono.
Vogliamo attirare l’attenzione sul fatto che i titoli verdiani degli “anni di galera” si rappresentavano, quali più quali meno diciamo in un rispetto della gerarchia dei valori della produzione e della loro valutazione (che può cambiare nel tempo) e che le proposizioni avevano anche pregi artistici e pertinenza stilistica, ovvero che non era una serie di esecuzioni trasandate orchestralmente, vociate secondo il teorema discutibile che per Verdi basta la voce, il tutto in attesa di direttori sensibili, cantanti tecnicamente e stilisticamente adeguati.
Imitiamo Cleofonte Campanini e partiamo da un Oberto del 1951 con la precisazione che per il cinquantenario anche la Scala fece le cose in grande e propose il primo titolo con quei cantanti che erano ritenuti modello di canto verdiano (Tancredi Pasero, Ebe Stignani e Maria Caniglia). Di quell’esecuzione non resta che l’aria di Cuniza eseguita per i concerti Martini e Rossi dalla Stignani. E della celebrazione verdiana dobbiamo “accontentarci” di quello che offrì la Rai schierando Giuseppe Modesti (Oberto) Maria Vitale (Leonora) Elena Nicolai (Cuniza) e Gino Bonelli (Riccardo Salimbene) sotto la guida di Alfredo Simonetto, una delle bacchette più in uso nelle stagioni della Rai.
Ebbene se facciamo eccezione per il tenore, per altro di voce assai bella e gradevole, mai forzata in zona acuta anche perché il primo puttaniere verdiano di acuti ne ha ben pochi, ma dall’intonazione periclitante soprattutto nell’aria del secondi atto sentiamo cantare piuttosto bene, con accento sempre nobile e castigato e con voci di grande qualità. Quest’ultima caratteristica si esplica al massimo grado nella Leonora di Maria Vitale, il cui modello ben chiaro è la Caniglia. Il timbro del soprano napoletano è nobile e dolce, facilissimo in zona alta dove la voce appare sontuosa ed ampia; se possiamo parlare di limiti questo vanno ricercati in suoni non ben raccolti nel primo passaggio che tolgono eleganza alla voce, mai all’interprete perché che Leonora sia dama di rango, offesa ed oltraggiata nei propri sentimenti è ben chiaro al soprano ed a chi l’accompagna. Basta sentire la scena d’entrata dove la Vitale colora e dà senso ad ogni frase, pur con i limiti vocali che ho evidenziato. Traduco ed esplico ad onta della voce sontuosa ci sono dei limiti tecnici che inficiano una esemplare resa del personaggio, ma tutte le frasi hanno senso, hanno accento e significato e talvolta in zona medio alta lo splendore vocale restituisce qualche cosa cui non siamo abituati da oltre un quarantennio. Basta sentire l’alternanza di slancio e ripiegamento della frase dell’aria di sortita “ah mi tradia l’ingrato, tolto ogni gioia ei m’ha” .
Lo stesso discorso può farsi per Giuseppe ModestI, che non era Pasero e neppure il primissimo Rossi Lemeni eppure i recitativi hanno ampiezza e nobiltà, il senso del testo e della situazione scenica è sempre colto e nei cantabili questo Oberto è ora delicato e patetico, ora altero come Verdi e la poetica romantica imponevano. Nel recitativo o meglio l’arioso di ingresso non si sente suono spinto o forzatura d’accento nel rendere i sentimenti del padre. Inutile dire che per accento, legato e qualità vocale il seguente duetto Leonora-Oberto è davvero notevole. L’esecuzione 1951 è un invito a riflettere far riflettere nel raffronto non solo con altri duetti della stessa opera, ma con molti altri fra soprani e voce grave. Mi permetto di riferirmi a quello Francesco Foscari – Lucrezia Contarini, malamente eseguito e diretto recentemente in Scala.
Quanto a splendore vocale e ad ampiezza Elena Nicolai è seconda solo alla Stignani ed anche qui va sfatato il mito che fosse una strillona verista con poco gusto ed impacciata nei passi di agilità. Intendiamoci l’esecuzione dell’aria ad opera di qualche belcantista è superiore nel virtuosismo a quella della Nicolai, che però vanta una colonna di suono sontuosa ed uguale in tutta la gamma sconosciuta ai mezzo soprani o pseudo tali dell’ultimo quarantennio. Nell’aria che apre il secondo atto dove la linea vocale e la situazione scenica in parte ripetono la grande aria di Bianca del Giuramento (opera di poco precedente 1837) al mezzo soprano bulgaro basta assottigliare di poco l’emissione perché la voce assuma colori delicati e castigati, certo commisurati ad un mezzo davvero eccezionale, consoni alla giovane dama anch’essa ingannata da Riccardo. Invito a osservare come la Nicolai dia senso ad ogni parola del recitativo di entrata al secondo atto e come non si senta in una cantante catalogata “verista” un suono aperto o scomposto; la salita agli acuti, poi, è facilissima e dobbiamo dispiacerci solo del fatto che nel da capo della cabaletta non compaiano, salvo alcune puntature, varianie sostanziose, che il mezzo soprano avrebbe sostenuto senza fatica e con pertinenza.
Come sempre non bastano i cantanti a fare una ancor oggi apprezzabile ( e forse qualche cosa di più) esecuzione di un titolo davvero fragile e che veniva rappresentato solo per il nome del suo autore. La ragione del risultato apprezzabile è nella direzione di Alfredo Simonetto, che esegue tutti i numeri e non taglia, contrariamente alla prassi, i da capi delle arie, e che, soprattutto, crea le atmosfere delicate e patetiche a partire dalle entrate di padre e figlia, le reminiscenza dell’opera donizettiana sia nel finale dell’opera che nella scena di Cuniza piuttosto che il clima da dramma (polpettone) di cappa e spada quando sono in scena gli uomini nel ruolo di vendicatori e latori della legge dell’onore dei cavalieri. Il coro all’atto secondo scena seconda, che precede l’aria di Oberto esemplifica quanto detto. Dimenticavo che l’orchestra della Rai di Torino suonava davvero bene senza sbavature, senza stonature, con precisione e pulizia di attacchi. Ricordo che siamo reduci dallo scempio veneziano di Semiramide.
Giuseppe Verdi
Oberto, conte di San Bonifacio
Oberto – Giuseppe Modesti
Leonora – Maria Vitale
Cuniza – Elena Nicolai
Riccardo – Gino Bonelli
Imelda – Lydia Roan
Orchestra e Coro di Torino della RAI
Alfredo Simonetto
Torino, RAI, 1951
Atto I
Atto II