Filologia ancella della musica ?
In questi giorni nei post seguiti a Semiramide sono ricomparse le differenti opinioni fra Duprez e me in ordine alla filologia. In pillole l’amico Duprez ritiene che io abbia di filologia e filologi una immagine riduttiva e che ad essi ed a loro prezioso e certosino lavoro anteponga la pratica delle esecuzioni quale indiscusso modello da seguire. Pratica che ovviamente è o può essere o, addirittura mi auspico sia, contraria alla volontà dell’autore. Premetto che nella mia esperienza di ascoltatore privo di studi universitari di filologia e musicologia (e si sente dirà chi mi considera un melomane e basta) ho avuto scarse occasioni di incontro con filologi musicali, ricavandone perplessità e dubbi.
Sgombro il campo e dico subito che il lavoro del filologo in generale è assolutamente prezioso ed unico per la tensione e lo sforzo costante di restituire un testo (letterario o musicale) che sia il più aderente alla volontà dell’autore. Poi mi permetto di rilevare che lavorare ad un testo di Manzoni piuttosto che di Calvino o di Sofocle ha come scopo finale consegnare al lettore un testo che sia il più attendibile e che garantisca la fedeltà se non assoluta, la migliore possibile. Lo stesso accade per un testo musicale vuoi di Cavalli che di Cimarosa o Rossini.
Poi scatta la differenza: il lettore dell’edizione critica de “I promessi sposi” di “Antigone” di “Marcovaldo” con l’ operazione lettura può, a seconda del proprio grado di cultura e preparazione, confrontarsi con il testo e valutare la qualità dell’operazione di ricostruzione, di edizione critica. La stessa operazione compiuta, partitura alla mano, con Semiramide piuttosto che con Ernani, è solo una fase e per giunta di limitata importanza del rapporto con il testo musicale.
Sono troppo ignorante (melomane si potrebbe dire) per stabilire se una battuta passata da un ottavino ad un flauto costituisca una profonda riscoperta o più semplicemente un chiarimento ed una miglior conoscenza, giammai dirimente di questioni storiche. Certamente ci dice che nelle orchestre di un certo periodo quello strumento non era sempre reperibile e, non di rado, veniva sostituito con un altro. Giusto e vero, ma non è abbastanza, è ancora poco rispetto al testo musicale e teatrale.
Molti anni fa un amico, docente di Archeologia classica mi disse che stentava a riconoscere il valore di Arte ad un coccio di un vaso, salvo casi assolutamente particolari, che al di là dell’Arte , potessero spostare datazioni e consolidate ricostruzioni storiche. Poi, ridendo ben conscio di essere assolutamente controcorrente precisò che, però, era arrivato ad accettare che le statue antiche fossero dipinte e non bianche come riteneva il padre del neoclassicismo Winckelmann.
La verità o si può dire la dolorosa realtà è che l’opera musicale , ricostruita, beneficiaria di edizione critica deve essere messa in scena, ossia che si aggiunge una fase essenziale ed irrinunciabile rispetto alla lettura nel segreto della stanza.
E proprio per questo il teorema del ricostruire la prima rappresentazione o differentemente quello di riconsegnare ai posteri lo spartito, che l’autore consegnò per quella esecuzione è tanto essenziale, quanto limitante.
E’ questo il punto – eterno- della differenza di opinioni con Duprez, che ha indotto a queste riflessioni. Semiramide (per citare un testo musicale) non vive solo grazie alla lettura della partitura come accade per qualsiasi testo letterario, ma quasi esclusivamente in virtù della proosizione scenica.
Non temere conto della differenza essenziale comporta un differente approccio con il testo (partitura) ricostruito dal filologo nel senso che non può e non deve ritenersi che l’unico testo da proporre in teatro sia quello integrale codificato dall’autore e ricostruito, risistemato, ripulito dal filologo.
Accanto alla ricerca della volontà dell’autore, rappresentata dalla partitura, ci sono altri e concorrenti elementi. Senza presunzione di completezza ne cito alcuni, che nascono dalla storia dell’opera, ottocentesca preciso perché la ricostruzione di Monteverdi o di Cavalli somiglia a quella di Sofocle.
Il primo che mi viene in mente è sempre la volontà dell’autore ed il suo assoluto rispetto che deve fare i conti con la frequente circostanza che l’autore stesso rimettessevle mani sulle proprie opere per renderle rappresentabili con cantanti differenti da quelli della prima esecuzione. Caso quasi di scuola Bianca e Fernando che, scritta per Rubini e la Meric-Lalande, vide una seconda, ampiamente rimaneggiata, versione per Genova protagonisti David ed Adelaide Tosi. E basta esaminare altre opere scritte per questi quattro cantanti per capire che fossero profondamente differenti e l’intervento dell’autore opportuno. Solo che talvolta l’intervento, anche a pochi giorni dalla prima non era affidato all’autore, come una lettera di Verdi a Donizetti, in riferimento ad una rappresentazione di Ernani a Vienna comprova. Non solo, talvolta le piazze della rappresentazione successiva la prima erano o meno importanti od assai più importanti per cui l’intervento si rendeva obbligatorio per ampliare o ridurre il lavoro.
Anche qui una serie di casi quasi codificati come i tagli delle bande e dei cori dei lavori napoletani di Rossini o l’obbligo sino alla seconda metà dell’ottocento di ampliare e prima ancora tradurre in italiano un titolo francese scritto per l’Opéra-Comique, che dovesse essere rappresentato a Londra. I genere si provvedeva a musicare i recitativi parlati, inserire numeri per i cantanti del Covent Garden, che erano le star e che avanzavano le loro giuste pretese. Ricordiamo che noi da sempre ascoltiamo in francese un Faust, un Romeo ed una Mignon pensati e rappresentati in italiano. Per contro: un titolo che approdava a Parigi all’ Academie doveva essere tradotto in francese, inseriti i ballabili. Anche qui ricordiamo che, da sempre, ascoltiamo un Macbeth in italiano, pensato in francese per un teatro francese. E allora francamente non capisco il motivo del furore e sdegno filologico davanti al Faust in italiano e del plauso dinanzi al Macbeth 1865. Se, poi, andiamo indietro nel tempo gli interventi dell’autore o di terzi erano la regola per consentire ad un titolo la circolazione. Era quella dolorosa e da noi mal compresa (in epoca di arte sovvenzionata dallo Stato) di andare in scena tutte le sere e di riempire il teatro. La stessa regola per cui il riformatore del teatro di prosa italiano Carlo Goldoni vede ancor oggi inseriti nei suoi lavori i cosiddetti soggetti celebre la cottura del riso nel sior Todaro o il “pan mastegà” dell’Arlecchino.
Sempre in punto interventi dell’autore non si può tacere per porsi domande che il Crociato in Egitto vide nel giro di un anno tre versioni assolutamente diverse per la parte del protagonista (ometto di richiamare quanto Meyerbeer modificò per Adriano di Monforte l’antagonista). Alla prima versione veneziana per Giovan Battista Velluti ( che poco piaceva al librettista Gaetano Rossi) seguì per Firenze un’altra versione sempre per Velluti con la modifica integrale dei numeri solistici e da quella versione filiò quella di Trieste per Carolina Bassi Manna, la protagonista che il librettista sognava per le straordinarie virtù di canto ed accento con il ritorno al rondò finale, ma tratto da Semiramide riconosciuta ( titolo scritto da Meyerbeer per la Bassi medesima) e da quella versione derivò in parte quelal di Giuditta Pasta, altra divina, insuperata interprete e creatrice di “versioni Pasta”. E con quattro passaggi ( non i soli intendiamoci bene ) dei numeri riservati ad Armando alla prima veneziana rimaneva praticamente nulla. Eppure tre delle operazioni furono di mano dell’autore, a prescindere dal fatto che l’arrivo della Bassi importava l’arrivo dello spartito personale della diva.
E allora qual è il Crociato di Meyerbeer ? Il primo si dovrebbe rispondere sulla base dei teoremoi della filologia tutti perché gli altri furono scritti solo per compiacere il divo di turno oppure tutte e quattro perché rispecchiamo in gran parte l’autore ed in parte raccontano come un divo del tempo si rapportasse al testo musicale, spesso con l’aiuto o la complicità dell’autore. La storia ci insegna che il compenso del divo e del compositore spesso erano uguali e se sbilanciati, lo erano a favore del primo.
Perché il modo di rapportarsi al testo musicale è un altro criterio che non può e non deve essere sacrificato in nome della fedeltà ad un testo musicale che il primo che “faceva e disfava” era proprio l’autore stesso.
Ovvio il motivo a differenza dei “Promessi sposi”, che venivano letti e meditati o “dei sepolcri” che potevano essere lette ed anche declamati, Tancredi, Semiramide, Orazi e Curiazi erano pezzi di arte di rapido e costante consumo . E già i titoli di Rossini per l’affermarsi del concetto di repertorio (spesso legato al fatto che i soli grandi teatri Scala, La Fenice, San Carlo ed Argentina potessero permettersi la commessa, mentre gli altri, con la stagione in occasione della fiera proponevano titoli già rappresentati e che per le differenze di compagnie e compagini orchestrali dovevano essere adattati) avevano vita assai più lunga di quelli del periodo precedente. Chi si prendesse la briga di guarda che cosa del venerato Romeo e Giulietta di Zingarelli (1796) cantasse, nel 1829, Giuditta Pasta scoprirebbe con raccapriccio (se filologo) con ammirato stupore ( se melomane) che del testo originale rimaneva la famosa aria “ombra adorata Aspetta” ed il resto era una miscellanea od un centone a base di passi rossiniani.
Il consumo imponeva non solo accomodi di linea vocale ( che poco possiamo documentare perché gli archivi dei cantanti finivano in pattumiera o pressappoco), ma l’inserimento di pezzi di altri titoli non sempre del medesimo autore. E qui i filologi moderni non intervengono perché dovrebbe andare a rimestare un magma lutulento di cui ignota la portata e di cui, ove mai identificata la portata, se ne ignora la gestione. Ed allora meglio arroccarsi inorriditi davanti alla violazione della volontà dell’autore, al capriccio del cantante all’arbitrio etc per dire che con la ricostruzione dello spartito predisposto al compositore è stato restituito quel che cantanti, impresari, pubblico avevano sottratto.
Solo che la storia documenta come sovente l’autore (Verdi compreso aggiungo) di queste violenze era, se non l’autore, il complice ed il favoreggiatore.
In questo aspetto ossia nella parzialità della pretesa di esaurire nello spartito originale un titolo risiede il limite della filologia, applicata al testo musicale. E’ inutile che il filologo si strappi le vesti innanzi le cadenze delle sorelle Marchisio tacciandole di fuori stile ( è vero che le sorelle avevano con Rossini mano un po’ pesante, ma la cadenza di Carlotta per la scena di follia di Lucia è quanto mai sobria ed evita lo strumento obbligato) perché quei “funesti e divistici interventi” ha provveduto ad approvarle il medesimo Rossini allorchè ringraziò le sorelle torinesi, che avevano risuscitato un morto quando nel 1859 presentarono a Parigi in Semiramide, per l’occasione tradotta in francese, tagliata in quattro atti ed arricchita oltre che delle cadenze delle sorelle di un numero di ballo di Carafa.
E di che doveva scandalizzarsi Rossini che con Mosè in Egitto e Maometto II (pure filtarto da un precedente rifacimento veneziano) aveva predisposto due altri capolavori come Moise et Pharaon e Siege de Corinthe del fatto che lo avesse fatto altri. Allora avrebbe dovuto rinnegare le sue arie per il Quinto Fabio di Niccolini, le varianti del “Ti conquise il braccio mio” dal Tancredi di Niccolini finite, in quel Tancredi, che sotto la sigla di Rossini, aveva inventato Giuditta Pasta o gli accomodi, inserimenti per l’appena conosciuta Isabella Colbran nella Morte di Semiramide di Nasolini.
Rossini era uomo di teatro (unico ed irripetibile) non un filologo. E non me ne voglia Duprez!
8 pensieri su “Filologia ancella della musica”
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Donzelli quando scrivi questi articoli fai quasi paura davvero di tutte le cose che riesci a scrivere e condensare in poche righe. Comunque premesso che é quello che sostengo da sempre e cioè che le edizioni critiche sono un supporto per gli esecutori e basta. Il teatro a differenza della sola musica strumentale é molto più difficile da decifrare proprio perché sono opere in cui le persone che ci hanno messo mano sono così tante e oltretutto si parla di lavori incrociati che poi si rischia di perdersi in un labirinto quasi infinito. Quindi alcuni preferiscono per così dire stare all’ingresso e all’uscita ignorando quello che c’è dentro. In ogni caso ben vengano le edizioni filologiche ma se devo dirla tutta anche i tempi in certi periodi e sopratutto repertorio strumentale erano drasticamente più lenti rispetto ad oggi. Quest’anno il concorso Chopin ha indetto per la prima volta esecuzioni solo su strumenti d’epoca, peccato che alcuni dimenticano che ci sono indicazioni molto precise sulla volontà dell’autore di eseguire i propri lavori dalla quale si evince come le velocità fossero drasticamente ridotte rispetto alle velocità quasi da perdita del treno moderne penso agli studi ad esempio. Detto questo io non credo che questo sia un problema almeno per quanto mi riguarda ma se vogliono fare i filologico e quindi restituire sonorità più possibile autentiche lo facciano fino in fondo e non rompano le scatole.
Non te ne voglio, ma attenditi una risposta – e non in commento – giacché non concordo neppure nelle virgole…
L’idea che una edizione critica di Sofocle possa ricostruire la volontà originale dell’autore, un sogno dall’otocento, è abbandonata ormai da tempo. Diciamo che una edizione critica è soltanto una ‘ipotesi di lavoro’. L’essenziale è che l’editore offra tutte le alternative. Così, il lettore può concordare o dissentire e, se necessario, ‘creare’ il suo proprio testo. Direi che l’obiettivo dell’edizioni critiche di testi musicali non dovrebbe essere molto diverso.
ma sai io sono ignorante……primitivo …. è il primo nome che mi è venuto in mente. Concordo con te sulle edizioni musicali il problema è che l’opera da Monteverdi al primo Verdi soffre per così dire della mediazione dell’esecutore e del fatto che il compositore scriveva con riferimento ai primi esecutori. Per questo ritengo ed ho scritto che rispetto all’edizione critica di Promessi sposi quella di Romeo e Giulietta di Zingarelli dovrebbe tenere conto di un maggior numero di variabili e di circostanze.
Certamente ogni testo ha problemi unici e la ‘tecnica editoriale’ deve cambiare da un testo a l’altro.
Qualche noterella,per attestare che il dibattito interessa non poco.Le edizioni critiche e i restauri sono utilissimi.Vedi il caso della glassa armonica in Lucia.La filologia non sempre è umile ancella,più spesso serva-padrona.Ricordo una Norma riveduta da Monterosso a Cremona,francamente insopportabile.E così pure polemizzai a suo tempo con un quartetto Collegium aureum mi sembra,che suonava con strumenti dell’epoca e sostituiva la corda di violino spezzata in diretta….sempre lo stesso numero.Naturalmente non amo nel Barbiere Proch e Delibes al posto del rondò dell’inutil seduzione e neppure le trascrizioni in su e giù arbitrarie l’eccesso di fioriture e le cadenze,per altro care alla tradizione e a volte eccitanti. La filologia classica è stata il regno del sapere storico e il suo metodo insostituibile.Ma certe volte l’originale intero d’autore non è mai esistito.vedi le Grazie di Foscolo,la stessa Turandot. La verità osservava Leonardo è figliuola del tempo.Il gusto non si sottrae a questa legge.L’esecuzione di volta in volta è una pugnalata all’autore,diceva Pirandello,ma in certe esecuzioni ovviamente dal vivo Dioniso si fa sentire e nulla è uguale alla sera prima.
per rimanere in Rossini, che è il terreno dove nel bene e nel male si sono applicati assai i filologi, se posso capire le ragioni che spingono a non accettare Proch alla lezione (aggiungo che mi piace immensamente e che sarei molto più favorevole alle varianti della bella molinara, che eseguiva con pochissimo Paisiello e molta Barbara la Marchisio) devo, però, dire che la serva è diventata padrona e della peggior specie ossia da condotta antisindacale quando inventa l’edizione parigina di Zelmira, risistemata per la Pasta. Perchè….. perchè se da un lato è giusto offrire al pubblico quel che Rossini predispose per Giuditta Pasta, utile a capire la differenza fra la Pasta e la Colbran (e che a mio avviso giustifica anche inserimenti non d’autore a testimonianza di come le opere circolarono e di come si operava davanti ad un testo) dall’altro non si può mettere in scena qualche cosa di cui si ignora la reale portata perchè al Rof non si sapeva se la seconda aria di Antenore fosse stata eseguita o meno a Parigi. Allora è più onesto dire che si esegue il finale di Parigi 1826, come faceva la Horne che eseguiva un finale alternativo di Tancredi. Un finale che piaceva talmente tanto ad Adelaide Malanotte che lo eseguì una sola volta ritornando sempre a quello lieto, che la Quaresima aveva impedito di esecuzione a Ferrara.
Scusate se mi intrometto in una discussione che trovo davvero molto interessante! Penso che ci sia nella filologia moderna un po’ di scompenso tra realtà e teatralità. Le edizioni moderne purtroppo spesso dimenticano che nessuno all’epoca si sarebbe mai sognato di fare ascoltare su un “supporto” la loro composizione se non in teatro. Sembra banale, ma i compositori lasciavano – non tutti- un po’di libertà al cantante poiché era LUI o LEI il termometro della serata. Solo loro potevano, trovandosi in scena, capire come il pubblico avrebbe risposto. Cosa c’entra? Lo spiego: non esistevano sin da subito edizioni “filologicamente” corrette. Il Rossini comico di oggi, più nobile e sobrio in molte edizioni, ha perso moltissimo l’aspetto teatrale (molte edizioni considerate storiche degli anni 70 sono meravigliose, ma anche molto noiose). Non si tiene poi conto, oggi, della vocalità dell’epoca. Spesso si dice che questo soprano o quel tenore potevano somigliare a questo o a quello. Purtroppo il nostro orecchio si è evoluto a seconda del nostro gusto. La laringe in epoca rossiniana e mozartiana era un muscolo abbastanza sconosciuto e i suoni molto scuri che sentiamo oggi (da una Terrani a una Horne, da un ramey a un neri) erano sicuramente molto più chiari (sempre appoggiati ma molto più chiari). L’arrivo del romanticismo, di Verdi e di altri misero in forte allarme i cantanti dell’epoca che si videro costretti a riorganizzare la voce, per non perderla dopo poche serate (la Strepponi ne era un esempio e Verdi in una lettera si dispiaceva di averle compromesso la voce con la parte di Abigaille, essendo un’ottima cantante con tantissime Lucia sulle spalle). Tutto questo per dire che il filologicamente corretto è utile e necessario per dare un’immagine, per far capire le volontà magari di un’artista. Noi ascoltiamo le parti dei castrati cantate da donne o dagli odierni gemelli della Bartoli: nulla avevano a che fare con la voce dei castrati (vedasi l’ultimo castrato Alessandro Moreschi, anche se lui era di gusto già tardo). Io credo che bisognerebbe anche contestualizzare l’incisione che si propone al contesto dell’epoca e al Teatro. Il Barbiere proposto a Roma non poteva essere in punta di forchetta come le incisioni di oggi. La Norma non poteva essere solo magnificamente cantata ma doveva essere anche “sentita” dall’interprete. Sulle fioriture delle arie poi non c’era una vera e propria prassi. In alcuni teatri si potevano aggiungere fioriture a iosa, mentre in altri quasi ometterle. Dipendeva dal gusto del “popolo” – allora eravamo divisi- che si andava a “visitare” o al quale si chiedeva l’applauso. Sicuramente erano più lente di oggi, degli odierni gorgoglii da Moka da 12, delle odierne “corse” inseguiti dai cani. Le operazioni filologiche io le trovo bellissime ed interessanti, piene di spunti e spesso davvero magiche. Ma il filologicamente corretto non credo esista. Anche a livello letterario. Il genio sta nel poter fare sì che ognuno dentro possa ascoltare o leggere ciò che uno vuole a livello emozionale.