La Figlia del reggimento, proposta nei giorni scorsi a Bologna, esemplifica al meglio che cosa debba intendersi per spettacolo provinciale. Non è tanto una questione di qualità dell’esecuzione, ma di quanto e come la suddetta qualità contrasti con le premesse e le pretese dell’allestimento. Si riprende la produzione di Emilio Sagi, proposta nella sala felsinea quasi quindici anni fa: un frutto magari risaputo, ma se non altro gradevole, del teatro di regia in salsa iberica, con un’ambientazione postdatata (siamo nella Francia della seconda guerra mondiale e non già nel Tirolo all’epoca delle guerre napoleoniche) e insistite sottolineature degli aspetti caricaturali di alcuni personaggi di fianco (Hortensius, i servitori della marchesa, che si muovono a tempo di danza durante la scena della lezione, l’ingresso degli ospiti alla festa di fidanzamento). I dialoghi, sostanziosamente sforbiciati, fanno sì che il rispetto della formula opéra-comique risulti non troppo indigesto al pubblico nostrano. Peccato che gli esecutori sfoggino un accento marcatamente provenzale, quando non da principianti dello studio della lingua di Voltaire, e che la scelta di proporre la versione originale risulti quindi decisamente superiore alle forze di cui il teatro dispone. Primo sintomo di una produzione provinciale, ovvero la sproporzione fra quello che si pretende di offrire e quello che si riesce effettivamente a proporre. Vengono poi aggiunti, e sarebbero stati facilmente evitabili, ammiccamenti a sfondo vernacolar/locale (i titoli che il maggiordomo elenca introducendo gli ospiti della Berkenfield, titoli che risultano incomprensibili allo spettatore che provenga da più di trenta chilometri da Bologna, visto che alludono a quartieri e sobborghi della città), che vieppiù sospingono la produzione verso una cifra parrocchiale del tutto estranea a un’opera che non sarà un prodigio di raffinata comicità, ma resta un lavoro contrassegnato anche da un’impronta malinconica, qui del tutto assente. Yves Abel fa quello che può, governando con mano sicura l’orchestra ed evitando significativi “sbandamenti” nei concertati. Il mestiere e l’esperienza del direttore non riescono però ad avere ragione di un’orchestra (fin dalla sinfonia, con tanto di ottoni scrocchianti), e soprattutto di un coro che sembrano avere irrimediabilmente perso quella varietà di colori, quell’esattezza di intonazione che costituivano, non molti anni fa, legittimo motivo di vanto per una delle principali piazze operistiche dell’Italia settentrionale. Inadeguato risulta il canto, non meno che la recitazione, di due ruoli che speravamo di non veder più ridotti a macchiette, ovvero Sulpice e la Marchesa. Il primo, che oltre a fungere da corifeo ripensa in chiave leggera (ma non troppo) le figure paterne del catalogo donizettiano, ha dalla sua almeno la robusta natura (che in più punti risulta schiettamente tenorile, per colore non meno che per assenza di ampleur in fascia centrale) di Federico Longhi, mentre la Berkenfield di Claudia Marchi non va oltre lo sfoggio di qualche ammiccamento nella cavatina contenuta nell’introduzione e di una buona disinvoltura nell’indossare le toilette anni Quaranta, al punto che viene da pensare che si sarebbe anche potuto affidare la parte a Daniela Mazzucato, che mal si adatta al cameo della Crakentorp, reso con enfasi eccessiva anche oltre ogni intento parodistico. Nei panni degli amorosi troviamo Hasmik Torosyan e Maxim Mironov, già proposti in coppia (con esiti modesti, soprattutto per quanto riguarda il soprano) nel Turco in Italia dell’anno scorso. In una parte ben più facile rispetto non solo a donna Fiorilla, ma alla Musetta affrontata in apertura di stagione, la cantante armena esibisce una voce di buona qualità in zona centrale, aspra e malcerta non appena la scrittura si avventuri nella regione acuta, caratterizzata da suoni sistematicamente flautati oppure gridati. Il legato richiesto dal finale primo e dalla grande aria del secondo atto rimane sulla carta, così come il virtuosismo previsto dalla scena della lezione di musica (l’arietta “all’antica” deve essere proposta con tutto il suo apparato ornamentale, affinché il contrasto con la canzone del reggimento possa produrre l’effetto costruito dal compositore). Esattamente all’opposto, Mironov sfoggia acuti di buona consistenza (anche se spesso risolti tramite inflessioni nasali piuttosto accentuate) ma non possiede, nel medium, l’espansione necessaria a caratterizzare il giovane amoroso, che per amore rinuncia alla libertà e riesce a vincere, in uno con il cuore dell’amata, le convenzioni sociali. E se il tenore russo risulta il migliore in campo, anche per il contegno scenico sempre pertinente ed esente da smancerie, la sua prova non riesce a dare senso a un’operazione che risulta, da qualunque lato la si osservi, piuttosto sconclusionata e poco rilevante. A volte i “forni” ovvero i palchi vuoti, le poltrone deserte nonostante promozioni e sconti last minute, gli applausi tendenzialmente fiacchi pesano più delle mancate contestazioni.