Opéra Bastille: il ritorno degli Ugonotti

Les Huguenots di Meyerbeer ritornano all’Opéra di Parigi dopo 82 anni di indecorosa e ingiustificabile assenza. Questa nuova produzione, che doveva essere – almeno nelle intenzioni – un grande evento o, quantomeno, una riparazione del torto perpetrato nei confronti di un capolavoro dell’Ottocento, si è rivelata un’operazione lodevole, ma per molti versi insoddisfacente. La causa principale è facile a dirsi: l’Opéra non ha avuto il coraggio di credere fino in fondo nel lavoro di Meyerbeer.

Infatti, i punti deboli di questa produzione sono stati, in ordine di importanza: i tagli, la regia e il protagonista. Eseguire l’opera con una buona mezzora di tagli (a Parigi si sono potute ascoltare circa tre ore e quarantacinque di musica) è scelta dal mio punto di vista inaccettabile se tiene conto dell’importanza del teatro, del valore della partitura e, non ultimo, del fatto che l’opera negli ultimi due secoli non è mai stata eseguita nella sua integralità. Per quanto concerne la regia, invece, Andreas Kriegenburg non saputo seguire una linea interpretativa ben definita, come si evince già dall’accostamento di costumi che guardavano al passato e geometriche strutture postmoderne. Le luci sono state utilizzate con perizia e hanno permesso di creare interessanti suggestioni (soprattutto negli ultimi due atti), lo spettacolo conservava una gradevole eleganza, i movimenti di cori e personaggi erano coerenti, ma visivamente si sentiva la mancanza di scene adeguate ai vari momenti dell’opera; dal mio punto di vista solo il secondo e il quarto atto sono risultati pienamente convincenti… anche se negli Ugonotti, spettacolare affresco storico, sarebbe bello tornare a vedere Chenonceau, Parigi e tutto il resto! La terza grave mancanza è stata fare affidamento su un tenore in piena crisi vocale (Hymel) che, alquanto prevedibilmente, ha rinunciato a tutte le recite, senza disporre di un sostituto adeguato; Yosep Kang, già doppio di Florez a Berlino, è risultato imbarazzante sotto ogni punto di vista, tanto impacciato scenicamente quanto tremendo vocalmente. Basti dire che, di fatto, l’opera è andata in scena senza il protagonista e qui mi taccio: su Kang cada l’oblio.

Ad onta di queste gravi tare, il pubblico ha apprezzato molto la musica di Meyerbeer – che ha dimostrato ancora una volta di saper conquistare anche il pubblico odierno – e io stesso confesso di essere uscito dal teatro emozionato ed entusiasta. I punti di forza della produzione sono stati senza dubbio il grande impegno profuso da tutte le parti chiamate in causa e l’affiatato lavoro d’insieme. In primis, complessivamente positiva è stata la prova di Michele Mariotti, che ha diretto con vigore l’opera facendone risaltare la tensione drammatica e cercando di trovare (non sempre riuscendoci) i colori appropriati alle molteplici situazioni musicali. Il direttore italiano, che prima d’ora non mi aveva mai convinto, ha lavorato in modo più accurato del solito e, seppur senza finezze e grande fantasia di interprete, ha servito discretamente la musica di Meyerbeer tanto nei momenti più solenni quanto in quelli più frivoli. Non impeccabile, ma comunque decorosa l’orchestra dell’Opéra, probabilmente per la scarsa dimestichezza con questo repertorio e per la fitta programmazione. Ottima, invece, la prestazione del coro, fondamentale nel genere del Grand-opéra; qualche suono stridulo da parte dei soprani non inficia una prestazione maiuscola.

Per quanto concerne i cantanti occorre una breve premessa: opere come Les Huguenots sono state composte per voci semplicemente eccezionali e qui di fuoriclasse non ce n’erano; ciononostante, quasi tutti i protagonisti hanno sostenuto onorevolmente la loro parte grazie allo studio e alle ottime intenzioni.

Trionfatrice della serata è stata Lisette Oropesa che ha eseguito con buon gusto, precisione e una buona dose di virtuosismo la parte della regina di Navarra; anche se il ruolo richiederebbe una voce più tornita e un mezzo vocale più schiettamente lirico, la giovane americana ha saputo coniugare virtuosismo, ottima dizione e recitazione spigliata strappando un lungo applauso al termine della grande scena all’inizio del secondo atto e alla fine del duetto col tenore. Non tutto è perfetto, gli acuti alle volte sono un po’ stretti e i gravi un pochino aperti, ma ciò non compromette una prestazione ragguardevole per gli standard odierni. Speriamo non si bruci in breve tempo per il desiderio di cantare ruoli pesanti poco adatti alla sua delicata vocalità. Molto brava anche Karine Deshayes nei panni del paggio Urbano, affrontato con molto spirito e con gradevole voce di soprano lirico-leggero (perché tale è la signora) con tanto di acuti e sopracuti; a suo agio sia nell’aria del primo atto (la seconda era tagliata) sia nei concertati. Discreta Ermonela Jaho quale Valentine, più convincente nella fascia medio alta della tessitura, piuttosto sorda e in ambasce in quella grave: lodevole la caratterizzazione scenica del personaggio (quella vocale palesava limiti evidenti), ma anche in questa circostanza la quadratura della voce Falcon non è stata trovata.

Ottimo il Nevers del giovane baritono francese Florian Sempey, che ha saputo conferire il giusto rilievo scenico e vocale a questo personaggio così umano. Meno brillanti, di contro, le due principali voci gravi, Nicolas Testé nei panni di Marcel e Paul Gay in quelli di Saint-Bris: migliore rispetto al solito, ma comunque in difficoltà negli acuti e debole nei gravi il primo, vocalmente non del tutto rifinito il secondo; entrambi, però, hanno interpretato molto bene la parte e hanno evitato scivoloni vocali. Volenterosi e abbastanza corretti i numerosi comprimari.

Come già detto, un franco e caloroso successo è stato tributato a tutti da parte di un pubblico galvanizzato dalla musica di Meyerbeer; qualche meritato fischio (troppo pochi!) per il tenore.

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4 pensieri su “Opéra Bastille: il ritorno degli Ugonotti

  1. Io sono del parere che si fa se ci sono le condizioni. Un opera in cui protagonista viene buato non so se mi farebbe uscire dal teatro contento a prescindere dal titolo ma secondo me la parziale approvazione di larga parte del pubblico é dovuto alla rarità del titolo non perché ovviamente minore ma al contrario perché richiede degli sforzi troppo onerosi a prescindere.In ogni caso mariotti ben conscio del compito arduo da portare a termine avrà sicuramente influito positivamente. Io non ho assistito ne sentito dal vivo oropesa quindi non posso dare un giudizio su di lei ne sugli altri.

  2. grazie a voi, che mi avevate ricordato di questa produzione, ho potuto anche io andare ad ascoltare questa opera a Parigi (splendida, in questo caldo autunno).
    concordo su tutta la linea con la recensione di Giovanni David, anche io sono uscito di ottimo umore dal teatro un po’ per via della bellezza dell’opera, un po’ per certi aspetti della rappresentazione che vi racconto qui sotto.
    Per prima cosa devo dire che dall’ascolto in teatro emerge la potenza della drammaturgia di questo testo: non ci sono mai stati tempi morti, si percepiva in ogni momento il desiderio di creare un lavoro fatto bene e sembrava chiaro come questa opera non fosse stata composta in venti giorni ma in circa duemila! :)
    Sulla regia vorrei solo aggiungere che durante l’ouverture, sul bordo del palcoscenico, venivano proiettate delle frasi, delle citazioni da una lettera scritta in un ipotetico futuro 2064 (come a far monito contro il sempre possibile ritorno di conflitti di tipo religioso o comunque di conflitti che debbano finire con nuove notti di san Bartolomeo che ho come la sensazione che nel mondo non siano mai davvero smesse). Questo potrebbe spiegare in parte le architetture postmoderne, e bianchissime, di tutta l’opera.
    Ho trovato entusiasmante il secondo atto dell’opera: in scena c’erano quattro stagni rettangolari, su uno c’erano dei camminamenti circondati da pali di bambù su cui si muoveva la regina di Navarra durante il suo canto, immaginate anche i riflessi dell’acqua tutto intorno con le coriste che si facevano il bagno un po’ nude. Davvero delizioso. Lisette Oropesa era stata annunciata “souffrance” prima dell’opera, con grande delusione del pubblico ma devo dire che la prestazione è stata comunque ottima: a parte un acuto storto nella prima strofa dell’aria (che mi ha fatto temere il peggio) poi ha cantato davvero bene, precisa, con le variazioni. Bravissima l’ho trovata poi nella parte finale del duetto (ah, si j’etais coquette), dopo la quale ha ricevuto grandi applausi.
    Grandi applausi nonostante cantasse con un Kang davvero da oblio. Peccato, perché il duetto del quarto atto, forse la pagina più intensa dell’opera, è stato rovinato senza appello. Sono sicuro che riuscite ad immaginare come abbia cantato “tu l’as dit!”.
    Mi è proprio dispiaciuto il taglio della seconda aria di Urbain. Vorrei semplicemente chiedere a Luis David: perché?!? non mi pareva ci fossero problemi da parte della cantante, anzi!
    Dopo quest’altro ascolto meyerbeeriano ho sostituito, nella lista delle opere da ascoltare in teatro, Les Huguenots con Robert le Diable.

  3. Anni fa ho assistito all’Africaine alla Fenice con Kunde, Simeoni e Jessica Pratt: opera meravigliosa, intensa, bellissimo ascolto, la scena della prigione memorabile. Meyerbeer è un ottimo musicista per il teatro, ma molto difficile da rappresentare (intendo dire cantare) e perciò pseudo dimenticato dai teatri. Ma i suoi lavori in disco ed dal vivo funzionano benissimo, e tutto sommato sopravvivono anche ad esecuzioni non sempre all’altezza, segno di grande valore musicale…… Non è un caso se Wagner per anni ebbe grande invidia per questo musicista!!

    • e’ vero i grand-opera reggono il teatro e lo reggono ad onta di esecuzioni mediocri e di cantanti inadeguati. In questo senso e mi sembra lo rilevammo i cantanti sopratutto la protagonista era inadeguata (donde la soppressione del grande duetto del quindo atto con Ines), ma il titolo reggeva. Certo che quella Ines sarebbe una splendida Dinorah o Caterina dell’Etoile.

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