Spettacolo provinciale e del tutto privo di interesse quello offerto dall’Arena di Verona in questo mese di agosto, tanto più che il “punto forte” di questo Barbiere era l’omaggio – di cui non si sentiva affatto il bisogno – al Figaro quasi ottuagenario di Leo Nucci. Scansato volontariamente l’indigesto baritono emiliano, ho assistito con l’amico Tamburini alla recita del 17 agosto, di cui si renderà brevemente conto.
Il Barbiere areniano non è un barbiere filologico, prevede gran parte dei tagli di tradizione e presenta un soprano nelle vesti di Rosina. L’ascolto degli interpreti, invero alquanto faticoso data l’esigua sonorità delle voci sul palco nonostante i sistemi di amplificazione, fa sorgere molti dubbi sull’opportunità di allestire simili titoli nella cornice dell’Arena. Per esser chiari: o si dispone di voci ben proiettate e di dimensioni congrue alla location, oppure si è costretti a immaginare cosa stia succedendo sul palco non appena la tessitura scende o l’orchestra si fa più corposa; in tal senso, il momento peggiore è stato raggiunto nel finale del primo atto in cui solisti e coro erano completamente sommersi da un’orchestra che non suonava poi così forte.
Si è rivelata pessima la direzione di Andrea Battistoni che subentra al padrone di casa Daniel Oren. Battistoni sceglie tempi tendenzialmente spediti, non offre una lettura coerente dell’opera nel suo insieme e accompagna maldestramente i solisti. L’esito è dunque negativo: mancano brio e leggerezza, è la volgarità a fare da padrona, come – un esempio su tutti – nell’aria della calunnia.
Parimenti volgare è il Figaro di Mario Cassi, berciante negli acuti, impacciato nel sillabato, poco udibile nei centri e nei gravi, incapace di eseguire le poche agilità previste, dozzinale nell’interpretazione. Deprecabile e incomprensibile il bis di “Largo al factotum” dopo ben 15 secondi di applausi; bis sollecitato dalle richieste di due o tre figuri, presumibilmente suoi ammiratori, e certo orchestrato per non far sfigurare Cassi rispetto al vecchio Nucci, che dei bis inopinati, ma quantomeno realmente richiesti dal pubblico ha fatto una specie di marchio di fabbrica.
Insufficiente anche Carlo Lepore, un Don Bartolo dalla comicità rionale che prende alla lettera la dicitura basso parlante e che si impicca non appena la tessitura sale leggermente. Tremendo il Don Basilio di Romano dal Zovo, un tenore che non riesce proprio a fingersi basso e canta davvero male. Imbarazzante, infine, la Berta di Manuela Custer che fa della sua aria una perla nerissima, orribile.
Veniamo ora gli amorosi. Nino Machaizde è una Rosina dalla voce bassa di posizione e vecchia. Se i gravi sono più immaginati che reali e gli acuti sovente prossimi al grido nonché affetti da uno sfarfallio che ne denuncia la scorretta emissione, i centri, di contro, suonano leggermente migliori, quantunque opachi e gonfiati. La cantante, che si dice pronta a virare verso ruoli Colbran e altri titoli più drammatici quali Bolena, Butterfly etc., dimostra di non avere, oltre alla tecnica, la voce per farlo: la tanto declamata polpa vocale che avrebbe conquistato negli anni non si è rivelata significativamente più corposa di quella dei colleghi. Le agilità sono risolte in modo fortunoso e approssimativo; se la cavatina risulta deficitaria, così come la scena della lezione, il momento peggiore è stato toccato, probabilmente, nel duetto col baritono, rallentato all’inverosimile per riuscire a sciorinare (male) le note previste. Discutibili le variazioni e la volontà di eseguire la parte “come scritta da Rossini” – solo quando le è stato possibile ovviamente – dal momento che i gravi sono sono risultati fiochi, inudibili e alquanto sgraziati. A conti fatti, il migliore in campo mi è parso Leonardo Ferrando che ha prestato la sua voce piccola, precisa nelle agilità (di grazia), intonata e a suo agio negli acuti al ruolo di Almaviva. Ferrando denota un vibrato stretto nella zona medio grave della voce, ma canta con gusto cercando di dare un senso al testo e variando ove possibile in modo intelligente in acuto. Il giovane tenore ricorda molto cantanti quali Alva e Monti, si rifà, quindi, a un Rossini anni ’50, abbastanza gradevole da sentire ancora oggi, ma certamente inadeguato alla grandiosità della parte, pur privata del rondò. La voce, piccola ma educata, non è certo adatta a uno spazio come l’arena, il cantante, inoltre, dovrebbe dedicarsi a un repertorio consono alle proprie caratteristiche vocali, l’opera del ‘600 e del ‘700 oltre a qualche ruolo mozartiano dovrebbe essere il suo terreno di elezione.
La collaudata regia di De Hana risulta graziosa a vedersi, tuttavia non è affatto aderente al libretto e manca di senso compiuto, oltre a prevedere inutili coreografie. Come di consueto, il pubblico areniano applaude qualsiasi cosa senza il minimo discernimento, applaude tutto, tutti e sempre, spesso interrompendo numeri non ancora conclusi. Da segnalare, in ultimo, la platea mezza vuota: i prezzi dei biglietti dell’Arena sono scandalosamente elevati rispetto al tipo di spettacolo offerto e alla sua qualità tanto che nemmeno i turisti se la sentono più di spendere queste cifre esorbitanti… l’organizzazione, prima o poi, dovrà meditare anche su questo.
Peccato che il commentatore in questione non abbia assistito alle recite del 4 e 8 agosto……
Perché si esibivano cantanti del rango di bruscantini, berganza, kraus
Si…il 4 c’era Kraus ..l’8 Cesare Valletti. Ps: sono cresciuto con l’Arena….ogni volta che esce il cartellone ed i cast sono preso da profonda tristezza….Arena archiviata da molto tempo….non é nemmeno colpa dei “non cantanti” ma dalle “non amministrazioni” che con l’opera non vanno a braccetto. Mi ricordo anni in cui opere come Macbeth (e cantava la Dimitrova) non riempivano l’Arena perché non troppo popolare per Verona…..ora Carmen fa fatica a vendere…..qualcosa forse non va.