La sera dopo il raffazzonato Barbiere di cui ha riferito Giovanni David, l’ente veronese ha offerto l’ultima replica del Nabucco nell’allestimento ideato lo scorso anno da Arnaud Bernard. La proposta risulta, rispetto allo spettacolo della sera precedente, maggiormente in sintonia con le caratteristiche del palcoscenico, almeno per quanto attiene la componente visiva. L’ambientazione nella Milano della dominazione asburgica, in sé non inedita (influenze risorgimentali si potevano rinvenire già nello spettacolo fiorentino di Ronconi del 1977), legittima un allestimento di natura grandiosa, davvero areniana ad esempio nell’imponente utilizzo di comparse, cavalli veri, cambi di scenografia a vista e più in generale per la capacità di sfruttare la cornice architettonica in tutta la sua estensione, collocando i figuranti (alcuni incaricati di reggere gli stendardi) lungo le gradinate e fino al sommo della scena, con effetti notevoli soprattutto durante la sinfonia e i finali d’atto. Qualche perplessità suscita la scelta di ricorrere in maniera sistematica a colpi d’arma da fuoco, salve di cannone e così via, tanto da rendere meno spettacolare l’attentato a Nabucco, che in questo allestimento sostituisce il fulmine divino, che atterra il blasfemo sovrano. L’analogia fra l’oppresso popolo ebraico e gli insorti milanesi, che hanno in Zaccaria il loro capo politico e non già religioso, tutto sommato funziona e lo stesso può dirsi della conversione di Fenena, che qui firma, da reggente, una sorta di compromesso costituzionale (il “santo codice” menzionato nell’assolo del basso). Purtroppo, dal finale secondo il regista si fa prendere la mano dalla volontà (evidentemente tipica della categoria, o almeno di buona parte dei suoi rappresentanti più in voga) di marcare una sempre maggiore distanza dal libretto, al punto da inserire un incidente di “fuoco amico”, che vede Fenena uccidere involontariamente Ismaele (poi avvolto nel tricolore), e risolvere tanto il finale terzo quanto la conclusione dell’opera con l’ormai frusto mezzo del teatro nel teatro: nella Milano della regina Abigaille si rappresenta il dramma di Verdi e proprio dalla sala del Piermarini partirà la rivolta (con tanto di lancio di volantini dal loggione, ovvia citazione viscontiana) che provocherà, verosimilmente, la caduta della tiranna, determinata anche dal “rinsavimento” del convalescente Nabucco. Insomma, molta carne al fuoco ma anche poca coerenza e troppe forzature (Abigaille che assiste alla rappresentazione non dal palco reale, ma in mezzo ai soldati in platea).
L’allestimento rimane comunque la parte più interessante della rappresentazione, ché la componente musicale non si discosta, quando va bene, da una generica correttezza. Jordi Bernácer regge con sufficiente sicurezza le fila del discorso musicale, nel senso che l’orchestra ha un suono intelligibile e, almeno nelle pagine più infuocate, adeguato alla circostanza. Decisamente meno riusciti altri momenti, su tutti le pagine solistiche, in cui (forse anche per venire in qualche modo incontro ai cantanti) dominano colori smunti e dinamiche al limite dell’inesistente. Come per la regia, si ha la sensazione che la seconda parte dello spettacolo sia stata meditata e forse anche provata in maniera più sbrigativa, onde qualche difficoltà nel mantenere la coesione delle masse orchestrali e vocali, ad esempio alla profezia di Zaccaria e nella cabaletta dell’aria di Nabucco. Ovviamente l’opera è stata eseguita con il taglio delle riprese delle cabalette e di parte dell’intervento di Nabucco, che precede “Immenso Jehovah”, ma di questo sarebbe ipocrita dolersi.
Delle tre prime parti dell’opera il solo protagonista, Amartuvshin Enkhbat, non ha sfigurato. Non sfigurare significa, in un contesto come quello areniano, risultare sempre e comunque udibile dagli spalti e condurre in porto senza troppe difficoltà la parte. Quello che si può rimproverare al baritono mongolo è il sistematico ricorso a portamenti per propiziare il passaggio dal registro centrale a quello acuto, soluzione che, oltre a rendere poco flessibile la linea di canto (spesso l’esecutore prende fiato quando ne ha bisogno, e non quando la frase musicale lo richiede), rischia nel lungo periodo di avere risultati funesti sull’organizzazione vocale, intonazione in primis. Che poi questo Nabucco sia avaro di intenzioni espressive, piuttosto piatto e tendenzialmente generico, poco tonante nell’apostrofe agli dei e scarsamente coinvolto nella contrizione finale è un limite che accomuna questa prova a tante del recente passato, a opera di colleghi dai nomi assai più illustri e dalle spropositate carriere.
Susanna Branchini, che in natura avrebbe una natura di schietto soprano lirico, esemplifica i difetti delle “dive” da politeama estivo senza averne i pregi: voce minuscola e di scarsa punta nel registro superiore, salvo che la cantante gridi, cosa che peraltro fa regolarmente, legato faticoso, dizione confusa, copiose stonature negli acuti inseriti in chiusa ai diversi numeri. Un po’ meglio Rafal Siwek come Zaccaria, che manca comunque dell’ampleur richiesta alla figura vicaria dell’invisibile Creatore: decisamente più riuscito il “Vieni o Levita” rispetto agli altri due assoli, in particolare quello del terzo atto, in cui la tessitura astrale causa non poche sofferenze al cantante non meno che agli ascoltatori. Luciano Ganci, che assieme al baritono possiede l’unica voce facilmente udibile in Arena, non ha però dell’amante e scarsamente guerriero Ismaele l’espressione al tempo stesso tenera e fiera, di matrice squisitamente donizettiana, che solo il canto di scuola assicura a una voce, per quanto dotata: meglio lui, comunque, della spenta Fenena di Carmen Topciu (a ogni modo più sonora della Branchini nei concertati, a partire dal terzetto), che indirettamente ci ricorda il rilievo che può assumere l’autentica principessa assira quando venga affidata a una cantante capace di rendere giustizia alla parte, breve ma tutt’altro che banale.
Il maggiore momento di teatro lo regala il coro, che bissa il “Va’ pensiero” e in entrambi i casi esegue la corona sull’ultima nota: peccato che, per due volte, gli applausi del pubblico giungano a guastare, se non a soffocare del tutto, il tradizionale e bellissimo effetto. Alcuni entusiasti erano peraltro riusciti, al finale secondo, ad attaccare le acclamazioni all’indirizzo di Nabucco quando ancora mancava una buona parte del monologo conclusivo.
Un pensiero su “Senso (in)compiuto: Nabucco all’Arena di Verona.”
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Manca una critica importantissima ad Abbigaille… Dov è la voce di PETTO???