Archiviato il cimento tragico, e prima dell’appuntamento con il Barbiere giunto all’ennesima edizione pesarese, ognuna delle quali assistita o per meglio dire giustificata dalla presenza di una nuova edizione critica o almeno di una revisione, ieri sera il Festival si è concesso la canonica oasi di tranquillità con la farsa, che per consumata vulgata è lo spettacolo “che mette d’accordo tutti”, il pubblico di bocca buona e la critica anch’essa di vasti orizzonti e larghe vedute, non più schiava, come in un funesto passato, di dogmi e fantasmi, pronta a riconoscere meriti stratosferici in una partitura assemblata su commissione in pochi giorni e appaltata in buona parte a maestri collaboratori. Adina viene peraltro servita in Pesaro per la terza volta nel giro di meno di vent’anni, totalizzando con riferimento allo stesso periodo un numero di edizioni pari a Cenerentola e Italiana in Algeri. L’operina, graziosa e poco impegnativa (con la parziale eccezione dell’aria conclusiva, che non ha certo nulla di stratosferico, essendo una normale scena con i cori, simile solo per la collocazione al rondò di Elena d’Angus o a quello di Zelmira), è servita al Rof, negli anni, per lanciare o rilanciare quali interpreti rossiniane di vaglia cantanti, aspiranti o supposte dive, alla loro prima (e magari ultima) apparizione nelle stagioni pesaresi: è accaduto nel 1999 con Alexandrina Pendatchanska (all’epoca non ancora ribattezzatasi Alex Penda), nel 2003 con Joyce DiDonato e accade oggi con Lisette Oropesa, da qualche mese salutata quale star in ascesa del firmamento internazionale. In una parte di scrittura eminentemente centrale la signora Oropesa si è distinta fin dalla cavatina “Fragolette fortunate” (la pagina più celebre dell’opera) soprattutto per la voce bassa di posizione e saldamente bloccata in gola, incapace di legato e costretta a ricorrere a suoni flautati e sovente stonati nelle incursioni all’acuto, regione cui la conducono sovente le variazioni, che supponiamo opera degli esperti musicologi pesaresi, gli stessi che per anni hanno tuonato contro i malvezzi dei sopranini applicati a Rossini e oggi sono costretti a riciclarli per una rappresentante tutt’altro che brillante della categoria. Quanto poi all’interpretazione, è opportuno ricordare come il genere semiserio o larmoyant non giustifichi un costante piagnucolio, quasi che il lamento fosse l’unica espressione possibile per la giovane favorita, fatalmente incerta fra la passione amorosa e la riconoscenza. Esordiente a Pesaro, ma non nel repertorio del Pesarese, di cui ha già eseguito parecchi titoli fra Germania e Spagna, il tenore Levy Sekgapane, che canta a imitazione del divo della prima serata, quindi con un centro rigorosamente spampanato, che nell’aria che precede la scena finale propizia acuti bianchi e stonati, negazione dell’estetica del canto rossiniano quanto se non più delle variazioni Toti style della Oropesa. Perfettamente in linea con il livello medio delle ultime produzioni adriatiche gli altri interpreti. Una nota sulla direzione di Diego Matheuz, frutto del sistema Abreu e già assistente di Claudio Abbado: perfettamente sovrapponibile a quella di Sagripanti nel Ricciardo, stesse atmosfere pastorali, identica confusione nei passi concitati, mentre vana sarebbe la ricerca di un colore, di un’inflessione capace di diversificare i cori di schiavi e seguaci del Califfo, i duetti amorosi e le scene comiche affidate al servitore di Adina. Si dirà che in fondo Ricciardo e Adina raccontano la stessa storia, quella di un amore contrastato in una cornice esotica. Del resto sia Semiramide che la Grande-Duchesse de Gérolstein hanno come protagonista una donna non più giovane con un penchant per i ragazzini!