Il festival di Martina Franca ha proposto quest’anno la prima esecuzione in tempi moderni del Rinaldo haendeliano nella versione approntata da Leonardo Leo per il teatro napoletano di San Bartolomeo (ottobre 1718). Di questa versione si riteneva perduta la musica (il libretto era invece sopravvissuto in diversi esemplari, uno dei quali conservato alla Biblioteca del Conservatorio San Pietro a Majella), sino al fortunoso ritrovamento della partitura, avvenuto in Inghilterra nel 2012. Le interviste ai responsabili dell’allestimento, proposte da Radio 3 durante gli intervalli della trasmissione dell’opera, hanno però evidenziato che la partitura in questione riporta solo una quindicina di arie e che i curatori medesimi hanno dovuto colmare non poche lacune, a partire dai recitativi secchi, composti dal curatore Giovanni Andrea Sechi “nello stile” di quelli perduti. Ma gli interventi dei musicologi non si sono limitati a queste integrazioni, diciamo di contorno.
Cercando in rete notizie del Rinaldo partenopeo, mi sono imbattuto in un interessante saggio di Sabine Ehrmann-Herfort (“Il viaggio del Rinaldo di Haendel”: http://riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi/article/download/1141/1201), che nel 2011 (quindi prima del ritrovamento della partitura, o piuttosto di quel che ne resta) esaminava le versioni del “Rinaldo” proposte ad Amburgo (in lingua tedesca) nel 1715 e per l’appunto a Napoli nel 1718, soffermandosi in particolare su quest’ultima e citando, fra le arie aggiunte, un Lamento di Armida al terzo atto. Dal momento che nell’esecuzione di Martina Franca non compare, nel punto in questione, alcun Lamento, bensì l’aria (sempre di Armida) “Vo’ far guerra”, prevista da Haendel a conclusione del secondo atto, mi è venuta la curiosità di verificare direttamente sul libretto se fossero stati operati altri cambiamenti, e di quale natura essi fossero. So bene che un libretto a stampa non necessariamente “fotografa” la realtà di un’esecuzione, particolarmente in tempi in cui l’opera era un prodotto di consumo e soggetto a molte variabili, in primis i capricci dei divi (che nel XVIII secolo erano i cantanti, non certo i direttori d’orchestra o i registi…), ma in assenza di altre fonti, che non siano una partitura mutila, un libretto risalente all’epoca Della rappresentazione deve comunque essere tenuto in debito conto. L’esemplare della biblioteca napoletana non è stato digitalizzato, ma per fortuna risulta reperibile on line quello della Library of Congress statunitense (https://www.loc.gov/item/2010665725/).
Aggiunto, rispetto alla versione londinese, è in primo luogo il prologo, in cui la Vittoria celebra, in uno con il compleanno dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo (il padre di Maria Teresa, all’epoca Re di Napoli, essendo Vicerè Wirich Philipp von Daun, principe di Teano), la recente Pace di Passarowitz, che conclude la stagione delle guerre contro i Turchi e segna il momento di massima espansione dell’Austria in terra balcanica. Di questo prologo (affidato a una delle dive della produzione, Marianna Benti Bulgarelli, che più tardi sarebbe stata musa e sponsor del giovane Metastasio) è pervenuta, a quanto pare, la linea vocale, ma non quella dell’accompagnamento. L’allestimento pugliese affida la pagina alla voce recitante di una bambina, con effetto presumibilmente ironico, certo straniante, comunque estraneo alle convenzioni dell’opera seria, che non ammettono (a differenza dei generi comico e semiserio) passaggi parlati, poco importa se in italiano o in vernacolo. Del pari perduta è la musica degli intermezzi (presenti alla fine dei primi due atti e alla metà del terzo), affidati ai personaggi, aggiunti per l’occasione, di Nesso (servitore di Almirena) e Lesbina (cameriera di Armida). In questo caso le parentesi comiche hanno un legame diretto (sebbene pretestuoso) con l’azione, dal momento che i servitori interagiscono (molto limitatamente) con i personaggi del dramma nel primo atto e sviluppano poi in autonomia i loro interventi, nella tradizionale alternanza di recitativi, arie e duetti.
Anche gli intermezzi (scritti per Gioacchino Corrado, all’epoca già celebre in questo genere di ruoli e futuro primo interprete della Serva padrona pergolesiana, e Rosa Petrignani, detta la Portughesina) sono stati a Martina Franca recitati in prosa e nessuno, evidentemente, ha pensato a rimpiazzarli con analoghi intermezzi provenienti da opere serie dello stesso periodo, magari composti dallo stesso Leo o da altri musicisti di area napoletana, visto che è pacifica la presenza di brani di altri autori accanto a quelli di Haendel e Leo.
Ma le sorprese del Rinaldo partenopeo – e le scelte piuttosto arbitrarie dell’allestimento del festival della Valle d’Itria – non si limitano a quanto già esposto.
In una curiosa anticipazione di quanto attuato dallo stesso Haendel nella sua revisione del 1731, Goffredo passa, a Napoli, dal registro di contralto en travesti a quello di tenore (il che sembra corrispondere maggiormente alle convenzioni dell’opera seria italiana, che impongono la voce virile per i ruoli di padre, sovrano, eventualmente antagonista del castrato), mentre il mago Argante passa dalla voce di basso a quella di evirato, il che si deve, verosimilmente, all’assenza di una voce grave maschile sufficientemente agile e potente da rendere giustizia a quanto previsto da Haendel per Giuseppe Maria Boschi. Il ruolo di Eustazio (che nella revisione del 1731 verrà soppresso) è affidato a un contralto en travesti e risulta quello maggiormente interessato dalla revisione di Leo, perdendo ben tre delle arie previste da Haendel (“Col valor, colla virtù”, I 8, “Siam prossimi al porto”, II 1, e “Di Sion nell’alta sede”, III 8) e sostituendo le restanti con brani di altri autori.
E proprio dal personaggio di Eustazio cominciano le divergenze fra il libretto partenopeo e l’esecuzione pugliese, atteso che alla scena seconda del primo atto il fratello di Goffredo, che da libretto dovrebbe cantare “Agitata da fiero timore”, esegue invece “Sia speme o inganno”, tratta probabilmente dall’Alessandro Severo di Apostolo Zeno, musica di Antonio Lotti (Venezia 1716). Un’altra sostituzione avviene alla scena terza del secondo atto, in cui, da libretto, Eustazio canta “Chi forte ha in petto il cor” e a Martina Franca esegue invece “Ho due compagni al cor”, tratta probabilmente da Arsace di Antonio Salvi, musica di Michelangelo Gasparini (Venezia 1718). E’ possibile che l’aria sia effettivamente la medesima, dal momento che il metro poetico (a differenza di quanto accade per “Agitata da fiero timore” vs. “Sia speme o inganno”) è lo stesso; nel libretto partenopeo la scena è però indicata (con apposito segno grafico) come espressamente composta da Leo per l’occasione. Analogo trattamento (testo differente, musica identica) subisce probabilmente la scena finale, in cui viene proposto il coro previsto da Haendel (“Vinto è sol dalla virtù”), laddove il libretto riporta un altro testo (“Fido amore alle nostre alme”), comunque compatibile, dal punto di vista prosodico, con la musica eseguita.
Diverso è il caso delle altre due arie “non congruenti” fra libretto 1718 ed esecuzione 2018, ovvero l’aria di Almirena alla scena quarta del secondo atto e il citato lamento di Armida alla scena terza del terzo atto. Nel primo caso, il libretto prevede “Crudo ciel fra le catene”, ma viene eseguita “Amami pur se vuoi”, tratta probabilmente dal già citato Arsace di Salvi e Gasparini, mentre al posto dell’aria “Congiurati già veggo ai miei danni” (anche questa esplicitata come “aggiunta” di Leo e preceduta da un recitativo verosimilmente accompagnato dagli archi, attesa la drammaticità della situazione) l’Armida di Martina Franca canta (dopo un recitativo secco) la citata aria haendeliana “Vo’ far guerra”. Di fatto, quindi, in almeno tre punti l’esecuzione proposta a Martina Franca si discosta dal libretto, rispettando l’indicazione di assegnare un’aria al personaggio indicato, ma proponendone una diversa rispetto a quanto riportato dal testo a stampa. È possibile che le tre arie in questione siano perdute, e quindi la scelta di ricorrere ad altri assoli appare opportuna, ma reputo poco probabile che Marianna Benti Bulgarelli possa aver proposto, in quel punto, un’aria di Haendel, dal momento che, di quanto previsto dall’autore, l’Armida napoletana esegue solo la cavatina “Furie terribili” e il duetto con Rinaldo “Fermati! No crudel”, essendo soppresso il duetto con Argante “Al trionfo del nostro furore” e sostituite tutte le altre arie da brani di altri compositori. Oltretutto, l’aria di Haendel prevede come strumento obbligato il clavicembalo ed era appunto in questo brano che il compositore di Halle si faceva valere quale improvvisatore, in un ruolo che il pur valido organista Leo (allora agli esordi dell’attività compositiva) non avrebbe, probabilmente, voluto né potuto emulare.
Al netto delle considerazioni circa le scelte esecutive della proposta pugliese, e prima delle riflessioni sull’esecuzione che saranno oggetto di una seconda puntata dedicata a questo parzialmente riscoperto Rinaldo, devo osservare come il lavoro di Leo (per quello che risulta dalla lettura del libretto e dall’ascolto della trasmissione radiofonica) risulti profondamente diverso e al tempo stesso miracolosamente simile all’opera da cui prende le mosse. Di quanto previsto da Haendel (quaranta pezzi circa di musica vocale e strumentale) sopravvivono sedici brani: quattro arie di Rinaldo (due delle quali nella medesima scena, quella del ratto di Almirena, a conti fatti la meno interessata dalla revisione partenopea, al netto della vistosa soppressione di “Venti, turbini”), un’aria per il personaggio della Donna che attira in trappola Rinaldo alla terza scena del secondo atto, un’aria a testa per Almirena ed Armida, un’altra aria di Almirena e una di Goffredo che passano però a Rinaldo, due duetti, un coro e quattro pagine sinfoniche, compresa l’ouverture. Risultano tagliati nove numeri: un’aria ciascuno per Argante, Goffredo, Rinaldo, Almirena e il Mago Cristiano (che perde così il suo unico assolo), due arie di Eustazio, la Marcia al terzo atto, scena sesta, e il già citato duetto Armida/Argante. Quanto alle altre sostituzioni, per ciascun punto in cui il libretto londinese prevede un’aria, il passo viene comunque onorato con un numero solistico per lo stesso personaggio, con due sole eccezioni: un assolo di Eustazio (“Col valor, colla virtù”) soppresso a favore di un’aria di Rinaldo (“Mio cor, che mi sai dir?”, già aria di Goffredo in Haendel) e un’aria di Rinaldo (“Venti, turbini”) sostituita da un’aria di Goffredo, “Se in te sol”, tratta probabilmente (con testo modificato) da Argippo di Domenico Lalli, musica di Giovanni Porta (Venezia 1717). Per tutti i personaggi, con la sola eccezione di Rinaldo e dei comprimari, vengono poi inserite arie, che in parte compensano i tagli di cui sopra: così, Almirena (Anna Dotti, una delle più celebri interpreti delle opere di Haendel non meno che di Vivaldi) compensa i suddetti tagli con ben 3 arie, Argante 2, Goffredo, Eustazio e Armida 1 a testa. In più, vi sono un duetto Rinaldo/Armida e il Quartetto Armida/Rinaldo/Argante/Almirena che chiude il secondo atto prima ella scena buffa. Notevole, in particolare, il rilievo che acquista in questo modo il personaggio di Armida e quindi la sua interprete signora Benti Bulgarelli, che apre (quale Vittoria nel prologo) e chiude l’opera (suo l’ultimo assolo, “Perfidi! Invan tentate”, alla scena finale, anche questa dichiarata opera di Leo), oltre a partecipare a tre dei quattro pezzi d’assieme previsti. Del pari messo in evidenza risulta Rinaldo, e non potrebbe essere diversamente, dal momento che la ripresa napoletana si deve, in primo luogo, al desiderio di Nicolò Grimaldi (detto il Nicolino) di riproporre nella sua città uno dei titoli scritti per lui da Haendel.
Il lavoro di revisione, riscrittura, inserimenti, soppressioni, “copia e incolla” svolto da Leonardo Leo è a ogni modo esemplare, ché nessun personaggio risulta davvero sacrificato: a ciascuno è dato di esprimere ora il valore guerriero, ora la melanconia, la collera e la tenerezza, i personaggi buffi (pur inseriti a forza nell’intrigo) forniscono ampie e necessarie divagazioni rispetto al tono sublime degli altri “interlocutori”, e ai divi (Nicolino e Benti Bulgarelli in primis, ma anche Corrado) è concesso lo spazio necessario a disputarsi i favori del pubblico, senza che si producano evidenti disequilibri nell’alternanza dei numeri solistici, sia rispetto ai personaggi cui sono affidati, sia con riferimento al carattere delle arie (che si succedono per contrasto, piuttosto che per giustapposizione di “affetti” analoghi). Non è insomma un caotico “concerto di arie”, quello proposto da Leo, ma un’opera propriamente detta, e il fatto che il direttore Fabio Luisi, intervistato da Radio 3, abbia voluto insistere sul carattere a suo dire “disarticolato” della rielaborazione napoletana indica solo una comprensione molto limitata delle caratteristiche dell’opera e forse anche del repertorio cui appartiene. Ma di questo avremo occasione di riparlare.
“Versioni” a confronto: Londra 1711, Martina Franca 2018, Napoli 1718 (da libretto)