Quando abbiamo pensato alla rubrica degli ascolti irrinunciabili la necessità di inserire Carlo Bergonzi e Richard Tucker è stata condivisa di tutti. Poi si è posto il problema del titolo operistico perché i due tenori hanno avuto molti titoli in comune dei quali sono stati i maggiori esecutori dal dopoguerra ad oggi. Basta pensare a Radames, Manrico, Don Alvaro, Riccardo, Rodolfo di Luisa Miller, Gabriele Adorno, Edgardo di Lucia, Enzo Grimaldo di Gioconda, Mario Cavaradossi ed anche il Rodolfo di Boheme ed il des Grieux pucciniano ed il protagonista di Chenier. In più Tucker cantò il grand-opéra di Africana, Eleazaro di Ebrea e, padroneggiando piuttosto bene la lingua francese, don José, Hoffmann e per motivi facili a comprendersi Sansone, mentre Bergonzi eseguì spessissimo Nemorino di Elisir, il protagonista di Ernani ed il Faust di Mefistofele. Occasionale per entrambi il rapporto con Pollione; Tucker, inoltre, eseguì assai più spesso di Bergonzi sia compare Turiddu che Canio. Il repertorio dei due tenori, spessissimo compresenti nelle stagioni del Met, ricorda quello di Aureliano Pertile e di Gigli dopo il rientro in Italia nel 1932. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che né Tucker né Bergonzi hanno mai esibito il perfetto equilibrio di fraseggio e tecnica di Aureliano Pertile o il timbro di bellezza unica del tenore di Recanati. Ciò non di meno sono stati insieme ad Alfredo Kraus ed Alain Vanzo, che frequentavano altro repertorio, esemplari e tali da superare tutti i tenori del dopo guerra, che abbiamo eseguito quei medesimi titoli. Dei due la voce di maggior qualità era quella di Richard Tucker, che vantava squillo e penetrazione coniugati alla rotondità del suono ed alla morbidezza, frutto del controllo assoluto della respirazione; basta ascoltare l’attacco della “furtiva lagrima” del tenore americano ultra cinquantenne per rendersi conto di quali risultati espressivi conseguano ad un elevato magistero tecnico. Per contro la voce di Bergonzi dal colore grigio e per nulla tenorile in natura con la pesante limitazione degli acuti, che progressivamente dopo il 1965 cominciarono ad essere dapprima faticosi, poi stonati e fissi sapeva trovare fra il piano ed il mezzo forte risorse di accento, evocatrici dei grandi tenori delle generazioni precedenti, talvolta estranei alla spavalderia vocale di Tucker. E con questi dubbi ci siamo chiesti chi dei due cantanti, nell’ambito dei personaggi verdiani fosse da proporre come Alvaro di Forza del destino e chi come Riccardo del Ballo. Scelta, confesso, difficile perché difficile stabilire se e chi prevalga dei due. Alla fine un ragionamento vocale ha prevalso e siccome Riccardo è l’ipostasi del tenore, innamorato e un po’ guascone, un po’ irresponsabile, che si giova della spavalderia degli acuti tenorili che sono stati una delle peculiarità di Richard Tucker, mentre le sofferenze e le macerazioni di don Alvaro, lo sforzo di essere sacerdote e non più un orgoglioso guerriero si addicono meglio a Carlo Bergonzi.
Tucker cantò Riccardo sino alla fine della carriera ed anzi con il più autentico amoroso nel 1972 si congedò dall’Arena di Verona e riscosse nel 1970 un successo clamoroso accanto a Cristina Deutekom a Firenze sotto la guida del promettente Riccardo Muti, ma quanto a direttori Tucker era stato il protagonista del Ballo nel 1955 al Met sotto la guida di Dimitri Mitropoulos. Aggiungo che per comprendere la grandezza del tenore americano sono facilmente reperibili due esecuzioni del duetto d’amore del secondo atto una con Birgit Nilsson del 1963 ed altra con Martina Arroyo nel 1970. Nel primo caso non colpisce, come sarebbe facile pensare, la gara di fiati ed acuti, che i due protagonisti ingaggiano, ma la cura nel fraseggio nella dizione sfoggiata e nel secondo la facilità con cui un cantante ultracinquantenne fronteggia il mezzo sontuoso e il fulgore della giovane cantante americana.
La prima qualità che colpisce del Riccardo di Tucker è la nitidezza della dizione (è uno dei casi in cui il libretto non serve), poi la capacità di inquadrare immediatamente il momento scenico, quand’anche il cantante non esibisca una dinamica particolarmente ricca. Spesso il Riccardo di Tucker diversifica i momenti e le situazioni drammatiche modificando il colore della voce. Riccardo entra con una voce che è quella sempre nobile del signore, un po’ incline al gioco di società, e si trasforma in quella dell’amoroso appena si parla di Amelia. Il controllo tecnico consente a Tucker una esecuzione esemplare dei passi sillabati anche nel “sollecita esplora divina gli eventi” della barcarola dove l’invito alla profezia si alterna con la farsa del povero pescatore, lontano dalla famiglia e per contrasto di eseguire con un legato esemplare la pagina più famosa dell’opera dove la nostalgia e la disperazione dell’addio prorompe nell’esaltazione del “sì, rivederti, Amelia”, che precede la funesta festa. Forse rispetto a Bergonzi nell’aria Tucker è meno vario e curato nel fraseggio, ma lo slancio della chiusa della scena lo fanno preferire anche al miglior Pavarotti in virtù del più completo immascheramento della voce, che acquista splendore e penetrazione superiore alla dote naturale del tenore modenese. La rotondità e la morbidezza del suono esaltano al profferta amorosa del “Non sai tu” ed il controllo del mezzo fa apparire facili e spontaneo il canto in tutte le frasi, che insistono sul passaggio di registro come “si n ch’io respiri Amelia l’aura dei tuoi sospiri” o il terzetto del secondo atto.Sono questi episodi vocali dove il cantante dotato in natura, ma tecnicamente insipiente è destinato ad arrancare miseramente. Con la guida di Mitropoulos l’intero ultimo quadro dell’opera è esemplare perché l’esaltazione dell’amore e la disperazione per l’addio dall’amata sono resi con misura e gusto (a volte Tucker incorreva in qualche esuberanza di accento), pur nel rispetto del momento tragico che Verdi rappresenta, con un equilibrio davvero esemplari e difficilmente raggiungibili.