E siamo arrivati al gran finale (pour ainsi dire) della prima parte della stagione bolognese: con questo Don Carlo (versione italiana in quattro atti) il titolo verdiano torna nella sala del Bibbiena dopo venti anni di assenza. Per l’occasione la direzione del teatro ha deciso di abolire gli ingressi last minute (quelli che riconducono il prezzo del biglietto al livello di un teatro di provincia, livello cui il Comunale, per la scelta dei titoli non meno che per quella dei cast, si è oggettivamente ridotto) ma ha acconsentito a una doppia diretta, quella radiofonica della première e quella in streaming sul proprio canale Youtube della recita di venerdì 8 giugno. Un paio di giorni dopo la seconda abbiamo assistiti, non proprio stupefatti, all’”arrivano i nostri”, ovvero al soccorso pronto e compiacente della carta stampata, che per bocca di uno dei suoi maggiori critici (continuiamo pure a utilizzare lo sciroppo di cui grondano Facebook e analoghi cenacoli virtuali, dedicati al mondo dell’opera) ha accusato lo spettacolo di Henning Brockhaus di essere antiquato e fuori luogo, un deplorevole segno dell’arretratezza culturale italiana e via di frusta e cilicio. Il tutto, ovviamente, per assolvere in qualche modo la parte musicale dello spettacolo. Ora, non è che lo spettacolo si distingua per coerente applicazione di idee non dico originali, ma sensate: è anzi la solita declinazione del peggior teatro di regia di area tedesca e potremmo descriverlo come una sorta di mise en espace (palcoscenico in massima parte nero e vuoto) ingoffita da una macedonia di costumi di varie epoche (predomina il primo Novecento) e ancor più dalla raffigurazione, fra il caricaturale e il blasfemo, del mondo cattolico, con un Grande Inquisitore che sembra un incrocio fra Elton John e personaggi minori del celebre reality “Il boss delle cerimonie”, un auto-da-fè in cui compaiono gli ormai imprescindibili maschietti seminudi tenuti al guinzaglio (perché fra l’Inquisizione e il sadomaso la contiguità è autoevidente…), una cripta di Carlo V ridotta a una sorta di privé (con tanto di cuscini disposti a terra, stile party anni Settanta). Ovviamente non si rinvengono tracce di una direzione d’attori o comunque di una condotta scenica pensata e meditata in funzione del testo musicale, caratteristiche che devono necessariamente connotare uno spettacolo d’opera, poco importa che la regia sia firmata da Visconti, Strehler o Zeffirelli. Insomma, lo spettacolo è il solito minestrone a base di ingredienti poco freschi, spesso e volentieri rancidi, ma non è certo il primo e purtroppo non sarà l’ultimo che vedremo applicato a questo e ad altri titoli del tardo Verdi. Il problema è che la parte musicale si sposa perfettamente a quanto vediamo in scena. Michele Mariotti approda a uno dei grandi titoli del compositore di Busseto, un titolo che, anche più di altri da lui recentemente affrontati, esige un concertatore capace di onorare, in uno con i molteplici drammi dei personaggi (l’amore, il desiderio di emancipazione, la vendetta, il rimorso, il tarlo del potere), la magniloquenza di quadri come quelli di San Giusto e di Nostra Donna di Atocha e la mescolanza di elementi tragici e altri più lievi (penso alla scena in cui Posa consegna alla Regina il biglietto di Carlo), il tutto nell’ambito di una partitura in cui non una nota è superflua, in cui la brevità sembra sostanziarsi dell’intensità delle passioni e viceversa. Abbiamo assistito all’ennesima prova che assomiglia, più che altro, a una prima lettura, un abbozzo di interpretazione in cui predominano colori cupi e opachi, spernacchiamenti diffusi di ottoni (l’attacco del primo atto), proverbiali “pestate” (anche nei momenti brillanti come la canzone del velo e l’attacco del secondo atto) e scarsa coesione delle masse orchestrali e corali (finali del secondo, funestato dagli attacchi della banda in quinta, e del terzo atto), mentre nei momenti più “intimi” (terzetto Eboli-Posa-Carlo, quartetto del terzo atto e successivo confronto fra la Regina e la Eboli) dominano confusione e piattezza, fino a un quarto atto letteralmente letargico per i tempi staccati (quasi che sul palcoscenico ci fossero Todor Mazaroff e Maria Reining, ovvero Mirto Picchi e la signora Maria Caniglia), in cui le sconsolate riflessioni di Elisabetta, il pathos dell’ultimo addio fra gli amorosi e la concitazione della scena conclusiva sembrano cadere nel vuoto e nell’indifferenza di una concertazione che si stenta a definire tale. Una performance sconclusionata, che trova il suo perfetto pendant in una realizzazione vocale davvero provinciale, e che peraltro non giunge affatto come una sorpresa, dal momento che tutti i convocati cantanti sono “noti all’ufficio” e solo le anime belle che popolano i fori virtuali possono stupirsi del risultato o, per contro, denigrare chi osi dubitare della bontà di cotanto spettacolo, che ben volentieri proponiamo in appendice a queste riflessioni. La peggiore in campo, se classifiche come questa possono avere un senso, è Maria José Siri, tecnicamente traballante (bastano le frasi più veementi del primo duetto con Carlo per verificare l’inconsistenza della prima ottava e il “Non pianger mia compagna” per constatare l’assenza di legato, oltre alle difficoltà e agli stridori che si manifestano non appena la tessitura sale anche solo di poco) e dalla voce ormai consunta (del resto sono almeno dieci anni che la cantante affronta per sistema un repertorio inadatto ai propri mezzi e soprattutto alla propria preparazione), ma non meno deficitaria, al netto di una natura per il momento meno tartassata, è la Eboli di Veronica Simeoni, che si conferma un soprano lirico senza acuti, sgallinacciato nelle parche colorature del velo (e sì che la signora proverrebbe, almeno nominalmente, dal repertorio donizettiano…), vociferante (ma con poca voce) allo scontro con Posa, fibrosa e pure stonata alla chiusa del secondo assolo. In evidente difficoltà con l’intonazione anche il Carlo di Roberto Aronica (sentire “ei sua la fè”), voce senescente e legnosa soprattutto nei momenti in cui l’Infante è chiamato a sfoggiare un minimo sindacale di “canna” (chiusa del primo duetto con Elisabetta, finale secondo), mentre Luca Salsi come Posa non ha, del Grande di Spagna, l’ampleur né l’alterigia, risultando piuttosto brado nel fraseggio e sgraziato nell’emissione, caratteristiche che si accentuano nella scena della morte, in cui, forse anche per la sopravvenuta stanchezza, i suoni in difetto di appoggio la fanno da padroni. Il tris di voci gravi, cui è affidato il ritratto del Potere, fotografa impietosamente lo stato attuale di questa corda, con un Filippo (Dmitry Beloselskiy) di voce sempre bassa di posizione e quindi impossibilitato a rendere la tormentata maestà del personaggio, un Inquisitore (Luiz-Ottavio Faria) senescente e tremulo ben oltre ogni ragionevole intenzione dissacratoria e un Frate (Luca Tittoto) cui non si addice la tessitura del ruolo, e che quindi non restituisce il carattere ieratico dell’epifania del defunto Imperatore, pur sforzandosi, lodevolmente, di cantare anziché berciare. E per capire che cosa differenzi quello da questo offriamo, accanto al presente Don Carlo, quello proposto dal medesimo teatro nell’ormai paleolitico febbraio 1969: una produzione contraddistinta da solido professionismo e anche da qualcosa di più, ma che all’epoca fu tutt’altro che esente da legittime critiche. Quelle che oggi, per certo, non troveranno spazio o meglio, saranno ricevute dal solito coro (che vogliamo immaginare stonato e fuori tempo, sì da adeguarsi a quanto proposto dal teatro felsineo) di accuse di invidia, frustrazione e amenità assortite. Buon ascolto.
10 pensieri su “Fratello streaming: Don Carlo a Bologna e la bugia pietosa.”
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Solo per l’inizio sarebbero da licenziare l’intero quartetto corni e direttore, il quale li ha portati così in recita. Non solo brutta la qualità del suono, brutta l’intonazione, brutti gli attacchi, ma c*** almeno mandarli insieme…
Davvero! Un inizio pessimo e traballante. Comunque la messinscena mi è parsa di rara bruttezza, forse la peggiore mi sia capitata con l’opera perdiana…
Don Carlo è una delle opere verdiane che preferisco insieme a Ernani, Attila e Forza del destino, soprattutto nella versione in 4 atti (per me di gran lunga superiore alle varie versioni in 5 atti): ne ho viste e sentite diverse edizioni, ma sgradevoli come questa mai. Neppure la brutta edizione di Gatti era tanto brutta…
E Traviata e Falstaff?
Preferisco (e di gran lunga) Attila, Ernani, Don Carlo e Forza del destino
La buona notizia è che CHIUNQUE di noi cittadini – per un cachet irrisorio o nullo – potrà debuttare QUALUNQUE ruolo desideri nei migliori teatri d’Opera del paese. Un simpatico karaoke che ridarebbe senso alle nostre istituzioni liriche.
In fondo è quello che sta succedendo in molti campi, o no?
Ma cosa dite mai ? Il critico del giornale locale ( Resto del Carlino – Giornale nazionale) ha definito Mariotti come il miglior direttore verdiano dei nostri tempi . Trascrivo alla lettera : “Il Don Carlo di Michele Mariotti è potente, possente; non granitico, ma modellato battuta dopo battuta con respiri, indugi, nuances che non ti aspetti anche se conosci la partitura a memoria, e che dopo averli uditi una volta ti sembrano i più giusti, e da oggi in poi irrinunciabili. Mariotti insomma è il direttore che più d’altri al mondo sa dire oggi una parola nuova su Verdi, su ogni singola opera che tocca, senza mai stravolgere nulla, ma dando semplicemente l’ impressione di sviscerare la vera natura di quella musica. ( Furnato : Marco Beghelli). Da abbonato al Comunale di Bologna mi sento infliggere ogni anno un paio di direzioni di Mariotti, e non mi ero mai accorto di tutta questa genialità.
forse no ti eri accorto perchè hai ancora le orecchie!
Sembrano le recensioni che riceveva, dal prono Corsera, il Maestro Muti al suo apogeo scaligero. Ma Muti, almeno, era Muti!
..ne ho visto un poco sul tubo…
sembra un allegro rassemblement tra ciechi sordi e storpi
i primi in una gara a tiro con l arco , i secondi in una kermesse canora ed i terzi in salto in lungo
Quanto al paragone tra Muti e Mariotti…
lasciamo perdere perchè raramente si è sentito suonare così male Verdi… forse le idee Mariotti le aveva ma i anche i tappi di cera nelle orecchie!!