Qual è la “vera voce” di Otello? La domanda spesso torna a far capolino nelle discussioni più o meno dotte tra critici, musicologi, addetti ai lavori o semplici appassionati. Di solito dubbi e tentazioni revisionistiche – rispetto a certe tradizioni interpretative spesso accettate aprioristicamente o date per vere per semplice comodità – emergono all’indomani di azzardi o avventure bizzarrie che molti tenori hanno tentato nell’affrontare il problematico ruolo del moro di Venezia. E allora c’è chi si rifugia nell’archeologia tentando di decifrare quel poco che si può nelle preistoriche incisioni del primo interprete oppure chi si lancia in pindariche digressioni di esegesi drammaturgica shakespeariana o ancora chi raschia nel fondo delle corrispondenza d’epoca per cercare di interpretare le “autentiche” volontà del compositore o infine c’è chi si getta con sadismo vivisezionatorio nel confronto con ruoli e repertori in uso agli interpreti di poco seguenti la prima. Tuttavia i pur encomiabili sforzi esegetici, spesso conducono a nulla di particolarmente chiarificatore: nonostante le oggettivamente sgradevolissime incisioni di Tamagno, o i giudizi poco lusinghieri – e stranoti – di Verdi sullo stesso tenore (ritenuto assai scarso nella lettura musicale ed incapace di stare a tempo) o la banale constatazione che un conto è Shakespeare altro è la traduzione in musica del personaggio, la domanda rimane inevasa. Qual è la vera voce di Otello? Qual è il suo vero carattere musicale? Ad onta della scrittura essenzialmente centrale, infatti, non è forse l’equivalente del tenore drammatico inteso com’era in Italia all’epoca dell’ultimo Verdi, sostanzialmente estraneo ai modelli wagneriani e, quindi, ancorato alla tradizione del tenore del grand opera? Non è forse più corretta una voce alleggerita da turgori e slanci tribunizi, chiara appunto, come quel che si intuisce fosse quella di Tamagno? Del resto oggi il ruolo è affrontato anche da tenori contraltini che hanno bazzicato Rossini per tutta una carriera o da interpreti dalla voce lirica e luminosa o da tenori baritonali (veri o artefatti) e così via tra errori e orrori. Persino Pavarotti – cantante che più di ogni altro appariva estraneo al ruolo – non si è fatto mancare Otello! Pure Bergonzi ne fu tentato. E chissà cosa ci riserva il futuro vista l’immaginifica gestione di ruoli e carriere lasciate nelle mani di incompetenti o – ancor peggio – all’autogestione di certi cantanti. Eppure dopo tanto discutere, si torna sempre, costantemente ad un modello. Un modello che oggi piace poco, anzi viene spesso indicato come cattivo esempio, come sbagliato, come inautentico. E’ l’Otello di Mario Del Monaco. Ed è l’Otello con cui, piaccia o non piaccia, ci si incontra e ci si scontra. Per molti – me compreso – quella è la voce del moro. Lo è nell’imprinting. Lo è nell’immaginario. Quello è il carattere del moro. Spavaldo, eccessivo, stentoreo, scultoreo. Sbagliato? Forse, ma non rileva. Del Monaco era, è e, ne sono convinto, resterà l’Otello di riferimento. E lo sarà perché pur nelle diverse letture che si vorranno dare al personaggio, nelle diverse interpretazioni, Mario Del Monaco incarnerà sempre un precedente più o meno vincolante. Per questo è a pieno titolo un “fondamentale”. Il suo Otello si deve conoscere: non solo per ragioni storiche, ma anche per autentico interesse musicale. Certo resta un mito e i miti difficilmente si discutono. Proviamo a capirlo attraverso gli ascolti delle sue tante incisioni (prendo a riferimento quella che per me è il riferimento, nonché la prima che ascoltai e che ancora oggi per me identifica l’Otello di Verdi: l’incisione DECCA diretta da Karajan con la Tebaldi e Protti). Lasciamo in secondo piano – ed è un delitto, lo so – la strabiliante concertazione di Karajan e il suono che riesce a trarre dai Wiener, lasciamo stare anche la Desdemona classica ed intramontabile di Renata Tebaldi e l’altrettanto leggendario e “verdianissimo” Jago di Protti. Sentiamo il Moro. Ciò che colpisce nel celeberrimo “Esultate!” è lo squarcio nel silenzio livido lasciato dalla tempesta di Karajan: la voce è solidissima e scolpita, l’accento è alto e spregiudicato. Del Monaco è l’eroe che da solo ha vinto i saraceni e lo mostra con tutta la potenza del suo mezzo. Potenza e autorità che ritornano poco dopo: “Abbasso le spade!” e non si può che abbassarle. E ancora – nel duetto d’amore con Desdemona – non c’è spazio per lirismo e dolcezza: Otello non sveste mai l’armatura del guerriero, anche l’amore è una conquista e una battaglia che non può che vederlo trionfatore. E’ un canto sfacciato, caldo, potente: giocato ai limiti della corda tenorile e tenuto insieme inconsapevolmente, forse, da una dote naturale più unica che rara. E lo stesso tono ritroviamo nell’atto II (con l'”Ora e per sempre, addio” più trascinante e coinvolgente che ci sia ed un giuramento che sembra davvero percuotere il cielo), nell’atto III e pure nel IV. Anche nel monologo finale l’eroe non diventa uomo: resta mito. Come Del Monaco. Si è detto che nessun altro cantante avrebbe retto un’intera serata cantando così: Del Monaca ha retto una carriera. Il suo Otello rappresenta anche la testimonianza vivente dell’evoluzione del gusto, della tecnica e dello stile che si fanno autonomi dall’originale e si intrecciano alla storia musicale coeva. Per questo è illusorio credere di poter ricreare certe prassi “ora come allora” così com’è altrettanto illusorio pensare di risentire in incisioni e testimonianze (anche vecchissime e pre acustiche) una qualche autenticità solo in virtù di una maggior vicinanza con l’epoca di composizione. Perché in qualche decina d’anni cambia tutto, cambiano esigenze e linguaggi espressivi, cambia il rapporto col pubblico…banalmente in pochi anni gli interpreti hanno la possibilità di ascoltare ciò che si è composto dopo la creazione del ruolo, e tutti questi intrecci di storia restano attaccati all’interpretazione. L’Otello di Del Monaco non sarà quello pensato da Verdi, forse, ma è quello che si è formato nel tempo che ci separa dalla sua composizione. E questo ci deve bastare, perché ogni interpretazione è figlia del tempo e non può essere giudicata in senso assoluto. Non può nemmeno essere considerata intoccabile e definitiva poiché la storia non si ferma mai e i linguaggi espressivi mutano. Per questo è tutto discutibile e rivedibile: senza cadere nelle opposte superficialità di tradizionalismo o revisionismo. I miti, tuttavia, soprattutto se non storicizzati, hanno anche un effetto sgradevole anche se fisiologico: l’imitazione. E così dopo Del Monaco molti altri interpreti del Moro hanno “delmonacheggiato” con risultati pessimi, attesa l’inimitabilità del modello (allo stesso modo di certi odierni sedicenti epigoni di Furtwängler). Perchè l’imitazione e la riproposizione acritica del mito è sempre deleteria o grottesca: non solo rimarrà inferiore all’originale, ma pure sarà priva di quel legame al suo tempo e alla sua storia che costituiscono la radice prima di ogni interpretazione.
Gli ascolti:
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