Se fosse uno scherzo farebbe anche ridere, ma il fatto è che questa freschissima produzione elvetica de La donna del lago è un affare maledettamente serio. Serio perché quella in scena a Losanna segna un passo in più verso quella grottesca e disastrosa barocchizzazione di Rossini che i detestabili cugini d’oltralpe stanno perseguendo ormai da anni con tutte le conseguenze del caso in tema di travisamento dei tipi vocali e dello stile esecutivo che con molta fatica la Rossini Renaissance – attraverso studi musicologi ed una sacrosanta revisione editoriale – aveva riportato a dignità, a cui si aggiunge, quale ulteriore sfregio, la riduzione dell’opera più ricca di atmosfere e suggestioni preromantiche (Tell a parte), ad una volgare farsa scollacciata che strizza l’occhio a Offenbach, all’operetta più triviale ed al cabaret di Pigalle. Responsabile e protagonista di questa puttanata (chiamiamola con il suo nome) è il controtenore Max Emanuel Cencic nella doppia veste di regista e di Malcolm. Tralasciando per un attimo il vero e proprio stupro da parte del falsettista di un ruolo scritto, pensato e dedicato ad un contralto donna (nel caso specifico la Pisaroni) – che costituisce un inaccettabile arbitrio contro filologia e buon senso – vale la pena dedicare attenzione alla messinscena. Cencic, in una specie di delirio onanistico, tramuta la natura selvaggia della Scozia di Scott, in un postribolo nella Parigi del Secondo Impero ed ambienta in un bordello l’intera vicenda. Nell’elegante salone con divanetti, tendaggi, ori e paccottiglia assortita, Giacomo/Uberto diventa Sua Altezza Imperiale Napoleone III, cliente in incognito, invaghito di Elena, che ovviamente svolge la professione più antica del mondo. La scena si apre nel bel mezzo di una festa “elegante” con ballerine a tette nude, maschere e copricapi con corna. Tra i tanti momenti topici: il re che appena resta solo con la sua favorita cerca di palparle il seno e infilarle le mani tra le cosce, ricevendo in cambio una frustata sui “gioielli”; il “geniale” cantante/regista che fa il suo ingresso con benda all’occhio e cabaret di pasticcini (presto finito in terra in una gag degna del Bagaglino) cantando la sua cavatina danzando prima con la vestaglia di Elena – di cui è innamorato – e poi volteggiando con la scopa mentre gli altri camerieri e inservienti – Malcolm è pure lui un umile servitore – spazzano per terra e sparecchiano i tavolini dagli avanzi dell’orgia appena conclusa; il duetto con Elena con tanto di bolle di sapone soffiate dal prode Malcolm; l’ingresso di Rodrigo – ricco cliente del bordello – che dopo aver sedotto le altre prostitute ( che letteralmente svengono ad ogni suo sguardo) reclama i servizi di Elena fumando e bevendo spaparanzato su una poltrona circondato da donnine, camerieri e lenoni che lo incitano a consumare e così via sino al finale primo, in cui l’imminente battaglia non è altro che una giocata a roulette e il canto dei druidi “benedice” prosaicamente la vittoria di Rodrigo nella bisca allestita nel bordello. Anche il secondo atto regala perle meritevoli d’essere raccontate: da Giacomo/Uberto/Napoleone III che si aggira per il bordello in mezzo a prostitute nude addormentate cantando “Oh fiamma soave” prima di essere preso nuovamente a frustate da Elena, al terzetto con Rodrigo in cui il “guerriero” cerca di divincolarsi da un maschione barbuto con tanto di gonna che cerca di ingropparlo; dal duello ridotto ad una scazzottata, all’addio di Malcolm che si licenzia come cameriere sino al finale con Napoleone III assiso in trono ed il coup de théâtre con cui si rivela che l’intero bordello non è che una fantasia di Elena, borghesissima sposa di un marito che la trascura. Sipario. Con tale messinscena parlare dell’aspetto musicale è persino superfluo. Dalla bacchetta di George Petrou – il mediocre pianista greco improvvisatosi direttore e barocchista – veniva, infatti, una lettura frizzante e superficiale, adatta forse a certi lavori di Offenbach, ma del tutto estranea al presagio preromantico che caratterizza il clima dell’opera. Il cast poi rispondeva alla lettura generale perseguendo la microbizzazione rossiniana in uso nei paesi francofoni: a cominciare dalla folle scelta di Gatell nel ruolo baritenorile di Rodrigo (di fatto indistinguibile dal Giacomo V di Behele) sino all’Elena bonsai della Belkina. A parte sta Cencic che macella la parte di Malcolm – appesantita da inutili gags e svenevolezze indegne – con una voce che semplicemente è sbagliata, artefatta e limitata. Uno spettacolo da dimenticare – e che gli amanti del trash potranno vedere liberamente sino al 26 di ottobre prossimo venturo sul sito di ARTE.TV – ma che temo farà scuola: attendo con ansia qualche entusiastica recensione nostrana.
Gli ascolti:
Mio Dio terrificante ciò che racconti! Da parte mia ripeto quanto ho già scritto più volte, sperando di non apparire troppo “melodrammatico”…. Credo che il Melodramma, inteso come opera d’arte, sia ormai defunto. Ciò a cui assistiamo ora, scenicamente e vocalmente, è lo spettacolo dei vermi che si stanno cibando del suo cadavere.
Penso che “immondizia” sia l’unica definizione che merita una roba del genere. E indovinate un po’ che cosa sono i “critici” che se ne beano…?
Oltretutto non capisco questa fissazione per i cosidetti controtenori. Chi glielo spiega che anche ai tempi dei castrati non se li filava nessuno perché si preferivano i colleghi anatomicamente privati? Ci vorrebbe Tognazzi e la supercazzola.
Io avrei pagato solamente per vedere Rodrigo ingroppato dal maschione barbuto con la gonna!
Nel genere ultra-trash, questa rappresentazione fara’ scuola!
Domandina: ma perche’ invece di storpiare Rossini, i cuginetti francofoni non storpiano, che so, un Rameau o un Lulli? Troppo “sacri” per loro?