Dopo avervi assistito al Don Carlos la sera di sabato 24, nel pomeriggio di domenica 25 vado all’Opera di Lione per il Macbeth.
Tutte le volte che mi reco a tal teatro, vedendo l’edificio progettato dal celebre (e strapagato) architetto Jean Nouvel ed entrandovi, mi viene in mente ciò che affermava Piero Calamandrei a proposito degli architetti che non sanno progettare le corti di giustizia (e dei committenti che non sanno loro spiegare ciò di cui hanno bisogno), ed, in particolare della progettazione della sede della Suprema Corte di Cassazione. Così scriveva Calamandrei: “A quell’architetto che nel costruire il palazzo di giustizia di Roma ha fatto tanto scialo di ambulacri, di corridoi e di scalinate, nessuno spiegò che nel sistema giudiziario italiano i giudici, alla fine del dibattimento, si devono ritirare dall’aula per deliberare in segreto; non è dunque tutta colpa sua se si è dimenticato di costruire, dietro l’inutile fasto di quelle aule troppo vaste, tranquille e appartate camere di consiglio, ove il collegio possa raccogliersi per deliberare comodamente” (“Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, rist. Firenze, 1989, 330).
Con il teatro lionese accadde qualcosa di simile, mutatis mutandis. Quando, infatti, si decise di ristrutturare completamente il vecchio teatro ottocentesco e si affidò l’incarico a Nouvel, costui sventrò, rase al suolo l’edifico, vi scavò sotto, lasciando intatti solo il perimetro murario ottocentesco ed il foyer dei palchi, costruendo al posto di ciò che era stato tolto un edificio particolarissimo che si espande in altezza ed in profondità per molti piani sopra e sotto il suolo, non potendo espandersi in superficie. Tutto (o quasi) ivi è nero: le scale mobili, la sala, le poltroncine (ben più strette rispetto a quelle del Regio di Torino), i pavimenti, i soffitti. Tappezzeria rossa appare in pochi ambienti a lato della sala, mentre le scale che mettono in comunicazione i vari livelli del teatro ed i loro pianerottoli sono in lamiera bucata, che ondeggia sotto il passaggio degli spettatori e che pare un’insidia per i tacchi alti delle signore, sì che camminando su essa pare di camminare sopra l’impalcatura di un edificio in ristrutturazione. La sala (dall’ottima acustica, peraltro) è contenuta in una specie di conchiglione sospeso, a metà dell’edifico. Però, nelle gallerie, tutte nere dal soffitto nero, incombenti sulla sala nera ed illuminate solo da sparuti minuscoli faretti, gli spettatori sono, anche a sala illuminata, in uno stato di semioscurità che rende impossibile (come a me è successo) anche solo leggere il libretto dell’opera. Il foyer ottocentesco, contiene il bar del teatro e, troppo piccolo per un teatro da circa 1100 posti, durante gli intervalli è un bolgia con gli spettatori stretti come sardine per cercare di andare a prendere un bicchiere di acqua o una coppa di champagne (quest’ultima a 12 euro). I problemi sono ben altri: l’architetto non ha pensato che il pubblico di un’opera durante gli intervalli, presumibilmente (soprattutto se reduce, ad esempio, dal primo atto di Parsifal), ha dei naturali bisogni evacuatori. Infatti i bagni sono pochi, piccoli, stretti e scomodi. Essi sono posti a lato del guardaroba e vi si giunge attraverso dei corridoietti (ovviamente tutti neri) così stretti che due persone non vi ci possono stare affiancate; poi l’interno è tutto nero, con lavandini neri (ovviamente non della solita forma banale dei soliti banali lavandini, ma “artistici”, così che è facile che l’acqua vi schizzi fuori. Taccio delle “cabine ad uso singolo”, tutte nere, strette, con “arredi” neri e luci di schiena che rendono difficile il loro uso… Oltre a questi due altri bagni più in alto, ma singoli! Con ciò si capisce come durante gli intervalli si formano file lunghissime di speranzosi utenti in attesa di fruire di tali indispensabili servizi.
Ma, quel che è peggio, mi hanno detto che durante la progettazione, l’architetto si sia dimenticato di inserire nella pianta e nell’alzato del teatro un ambiente dedito a sala prove per l’orchestra una bazzecola!! Così, mentre il coro ed il corpo di ballo provano in teatro, mentre in teatro provano gli onnipotenti (o quasi) registi, l’orchestra deve provare in un edifico distante e distinto. La colpa è più dell’architetto o di chi doveva controllarne ed approvarne i progetti?
Per finire questa piccola disamina sui difetti dell’edificio, avevo sentito dire in loco – e lo do solo per asserzione de relato – che la copertura, realizzata con lastre di vetro apribili, si era scoperto lasciare penetrare, d’inverno, acqua e neve all’interno, sì che era sorta una vertenza legale fra l’Opera ed il progettista…
Quanto alle particolarità della programmazione e della gestione del teatro, particolarità positiva è l’attività per avvicinare un pubblico sempre più vasto all’opera, in particolare quella dedicata a bambini e ragazzi, nonché nel programmare instancabilmente attività di vario genere per un pubblico di tutti i generi. Particolarità negativa è, invece, l’estrema difficoltà di poter vedere un’opera con una messa in scena anche solo un poco fedele al libretto: sarebbe troppo retrogrado e troppo poco à la page ed il teatro lionese vuole sempre e comunque essere progressista ed à la page! L’unica volta che ho visto a Lione un’opera con una regia normale era stato per uno splendido “Mazeppa” 12 anni fa con la direzione di Petrenko e la regia di Stein. Altrimenti, “Libera nos, Domine!”. Rammento in particolare un “Boris Godunov” affidato ad un regista tedesco con in scena di tutto e di più (macchine da scrivere, sedie a rotelle, gli onnipresenti cappottini e cappottoni grigi, fiamma ossidrica, feminae defututae et fellatrices, etc.), di cui è bello tacere.
L’Opera poi cerca di metter su tutti gli anni un’opera moderna in prima assoluta, con risultati che non sta a me giudicare; quest’anno tocca a “GerMANIA” di A. Raskatov.
Le discutibili scelte in punto messe in scena, nonché in punto cantanti (i maggiori serbatoi di rifornimento sono l’area tedesca ed i paesi dell’est) forse sono spiegabili con il fatto che il direttore artistico viene di Germania… ed il direttore generale M. Dorny è di evidenti gusti teutonicizzanti, tanto che era già stato per breve periodo sovrintendente a Dresda ed ora è in partenza per Monaco di Baviera, dove tutti sappiamo come si mettono in scena le opere….
Nei programmi, poi, e nelle presentazioni c’è spesso un risibile retorica alquanto fastidiosa, con cui si dicono, con tono enfatico, delle ovvietà come se fossero cose mai udite o delle supposte grandi verità.
Proprio uno che vorrebbe dire delle grandi verità appare il regista di questo Macbeth (ripreso da una edizione di alcuni anni fa, originariamente diretta dal M° Ono), tale M. Ivo van Hove, per cui, nel programma della stagione si spreca la definizione di “grande”; qui infatti si legge che “Le drame terrible de Shakespeare repris par Verdi est actualisé par le grand Ivo van Hove au coeur de Wall Street”. Ora, a me, se penso a dei veri grandi registi che hanno messo in scena il Macbeth verdiano vengono in mente di primo acchito Luchino Visconti, Jean Vilar e Giorgio Strehler, tutti autori di regie aliene da castronerie di qualsivoglia genere e che, perciò, per certi parametri odierni non potrebbero dirsi abbastanza originale e, quindi, grandi.
Nella presentazione dell’opera si legge che il regista ha ambientato l’opera a Wall Street, traendo idea da un film che descrive la lotta per il potere dei traders nuovayorkesi ed il castello reale diventa un grattacielo di cinquanta piani nel cuore della città finanziaria. Che corbellerie! Sono sempre le solite stramberie dei soliti registi degni di un TSO immediato. L’insieme della regia era ridicolo e può essere definito semplicemente ed icasticamente come il Rag. Fantozzi definì “La corazzata Potemkin”. Ma quel che è peggio è che tale messa in scena, oltre a fare schifo, è dannosa per il lato musicale dell’opera, come cercherò di spiegare nel prosieguo.
C’è un’unica scena per tutta l’opera, un ufficio, tre pareti chiuse, che serrano la scena come tre lati di un quadrato, con, a metà di ciascuna, una porta ed a lato degli schermi e delle postazioni di lavoro, a cui si siedono le streghe che qui sono operatrici di borsa. Il problema è che le cantanti del coro, per la conformazione della scena, sono a notevole distanza l’una dall’altra, sia dal punto di vista della larghezza che della profondità del palcoscenico e ciò può provocare dei problemi per l’omogeneità del canto. Macbeth, Banco e tutti gli uomini sono o in doppio petto, o completo o spezzato, come degli uomini d’affari, dei broker o degli impiegati di borsa. Lady Macbeth, in elegante abitino di sartoria, legge la lettera con il marito presente, quindi non si capisce il suo stupore nel ricevere dal servo la notizia che questi sarebbe arrivato di lì a poco. L’uccisione di Banco avviene in un garage da parte di sicari (che sono poi sempre gli impiegati di Macbeth) che manco si sono tolti il completo od il doppiopetto, il che pare illogico perché un broker di Wall Street, anche se commette un delitto, ci tiene sempre a non macchiare di sangue il suo abito firmato. Banco deve urlare il suo “Fuggi mio figlio” da fuori scena, microfonato, con un brutto effetto, perché, avendo sua maestà il regista deciso che le scene erano tutte chiuse non era possibile aprire nemmeno una porta per fare in modo che la voce del cantante giungesse in modo naturale alla sala. L’effetto è pessimo ed antimusicale.
Il banchetto è ovviamente un party. Banco appare nei video posti a lato della sala, stranamente visibile solo a Macbeth. Ovviamente nessuna caldaia nel terzo atto, dove le apparizioni di spiriti e re sono formate da insiemi di numeri proiettati sulle pareti di fondo. Le apparizioni devono cantare fuori scena, per le stesse ragioni testè spiegate, e sono amplificate, sempre con un effetto antimusicale.
Nel quarto atto i profughi scozzesi sono un insieme di soggetti non meglio identificabili dai costumi (pare un insieme eterogeneo di bancari, banchieri, hippy, barboni, etc. etc. etc.); ovviamente il saggio regista che ne sa più di Verdi è riuscito a rovinare “Patria oppressa”, nonostante l’eccellente prestazione del coro e l’ottimo lavoro del suo maestro. Come ha fatto? Sempre disponendo il coro in scena in modo errato, con cantanti fra loro distanti e, quel che è peggio, ad un certo punto una corista si è dovuta portare al proscenio, sempre cantando, di modo che la sua voce avanzava quella del resto del coro come se fosse una solista. Ma non c’è nessuno che insegna, come le buone o – meglio – con le cattive, a questi registi ignoranti e presuntuosi il rispetto dovuto a Verdi? Si dice che un tempo i loggionisti del Regio di Parma per colpe men gravi di chi maltrattava, a loro dire, Verdi impugnassero il randello. Non sarebbe una brutta idea riprendere in considerazione certe sagge usanze? Macduff e Malcolm sono ripresi in diretta video che appare proiettato sullo sfondo; anche qui, sai che grande idea, sai che novità: una cosa simile la faceva (e meglio) Luca Ronconi nel Viaggio a Reims a Pesaro, nei primi anni ’80. A quel che si può capire Macbeth strozza la moglie dopo il sonnambulismo, poi resta in scena, con il coro che – regista docet – gli si rivolge dal retroscena amplificato. Poi irrompe un gruppo con cartelli, tende, ombrelli etc. e si impadronisce della scena innalzandovi quello che poteva sembrare un gran gufo di plastica. Macbeth resta seduto su un divanetto con una coperta addosso. Un tale interrompe la musica dicendo non so che cavolate e poi arriva il coro finale. Dimenticavo di dire che in scena è onnipresente una donna delle pulizie e che sullo sfondo della scena sia alla fine della prima parte (l’opera era data in due parti, con intervallo fra secondo e terzo atto) che al finale sullo sfondo è proiettato un gufo che vola, il cui significato mi è ignoto.
Per creare cotale e cotanta indecente porcheria M. Van Hove ha avuto bisogno dell’aiuto di Jan Versweyveld (scene e luci), Wojciech Dziedzic (costumi), Tal Yarden (video), Janine Brogt (drammaturgia teatrale) e Jan Vandenhouve (drammaturgia musicale), quando a Visconti o a Strehler bastavano Nicola Benois o Lila De Nobili, Ezio Frigerio o Luciano Damiani per creare spettacoli memorabili. Quel che più fa non so se ridere o piangere è la necessità di due soggetti veramente inutili, quelli cioè dediti alla drammaturgia teatrale ed alla drammaturgia musicale, dato che nel nostro caso il lato teatrale e musicale del dramma sono già stati abbondantemente curati dai Sigg. Shakespeare, Piave e Maffei e dal M° Verdi. Veramente non si capisce a cosa servano mai – se non ad aumentare le spese per il teatro – codesti drammaturghi in uno spettacolo d’opera: forse a suggerire al regista di turno le scemenze e le follie che lui da solo (il suo povero cervello, Dio lo riposi!) non è in grado di partorire da sé, nonostante tutte le sue masturbazioni mentali?
Ma passiamo alla musica di Verdi ed alla sua esecuzione, ben più importante di tutte le “geniali idee” dei registi autoproclamantisti novelli messia della scena teatrale.
Il Macbeth viene presentato nell’abituale versione rivista da Verdi nel 1865, però senza i balli del terzo atto, il che mi pare una cosa molto discutibile, soprattutto se si pensa che l’Opera di Lione possiede una buona compagnia di danza. Dato che si tratta di ballabili forse fra i più belli scritte da Verdi sarebbe bene eseguirli. Ancora peggio è il taglio del coro e della danza delle ondine e silfidi, coro molto bello che può darsi benissimo anche senza coreografie. Ma tant’è, ed è da credere che tali tagli siano dovuti all’originaria impostazione registica, anche se, corbellerie per corbellerie, una danza di impiegate e stagiste in mezzo ai listini di borsa ci sarebbe anche potuta stare. D’altro canto nemmeno Abbado alla Scala nel 1975 eseguì, a differenza di Muti, le danze. Finora, delle quattro edizioni teatrali di Macbeth cui ho assistito, ho visto le danze soltanto al Teatro Civico di Vercelli, credo oltre 25 anni fa, mentre niente danze nelle due ultime esecuzioni al Regio di Torino, a differenza di quanto era accaduto nel 1977 sotto la bacchetta di Previtali. Ma allora il Regio aveva un corpo di ballo, poi disciolto, mentre le due bruttissime messe in scena importate per le ultime edizioni dell’opera non comportavano evidentemente ab origine la presenza delle danze
Nell’esecuzione di Macbeth, rispetto al Don Carlos, la situazione cambia un poco, poiché ci troviamo, per la maggior parte dei protagonisti, di fronte a voci di volume maggiore ed astrattamente più adatte al ruolo. Anche per Macbeth vale sempre quello che avevo scritto per Don Carlos: l’Opera di Lione è una sala piccola e di buona acustica, in cui i cantanti sono posti a poca distanza dal pubblico, e, quindi, aiuta le voci.
Il protagonista è il baritono atzero Elchin Azizov. Ora, il cantante non può considerarsi troppo raffinato, l’interpretazione è un poco tagliata con l’accetta, l’intensità della voce è di solito fra il forte ed il mezzoforte, però, dopo tante vocine ridicole biancastre e sforzate di pseudotenori sfiatati spacciati per baritoni, qui siamo di fronte ad una vera voce di baritono, fresca, sana, potente, di bel colore, salda in tutti i registri. Non è da chiedergli particolari sfumature, ma quando c’è da cantare con forza le cose funzionano proprio bene. Si spera solo che il cantante adesso si dedichi a lavorare più di fino, perché il materiale naturale c’è.
Diverso è il caso di Roberto Scandiuzzi (Banco), che solo la sera prima aveva cantato l’Inquisitore e che affrontava la sua parte senza risentire minimamente delle recite ravvicinate; per evidenti ragioni di età, non può più puntare tutto sulla potenza, ed allora gioca con l’interpretazione e le sfumature. Il suo è un Banco mai gridato, ma piuttosto giocato su una grande varietà di toni; nell’aria si sentono dei bei mezzoforti e soprattutto dei bei piani ben eseguiti a fil di voce, però con una voce che – vedi la tecnica – riesce a farsi sentire, pur cantando piano, in tutta la sala. Veramente bravo.
Bene pure la Lady di Susanna Branchini. Non è – ovviamente – il soprano drammatico che sarebbe perfetto per il ruolo, però, se la cava decisamente. La voce è bella, non si sentono suoni brutti, ingolati o tubati, la cantante non cerca di scurirla o di sforzarla, né di crearsi toni cupi che non possiede. I primi due atti le riescono meglio che la scena del sonnambulismo, dove si sente un poco di stanchezza. Nel complesso, soprattutto con quel che ci tocca sentire, funziona.
Una piacevole sorpresa viene dal tenore. Per il ruolo di Macduff era previsto il tenore russo Arseny Yakovlev. Questi, però, alla prima ha dimostrato di aver voce timbricamente bella, ma tecnica nulla, stonando tutta la parte. Perciò è stato sostituito (un comunicato nel programma di sala diplomaticamente informa che la sostituzione è avvenuta “Arseny Yakovlev étant souffrant”, quando, in realtà, la sofferenza pare sia stata provocata alle orecchie degli ascoltatori…) dal giovane tenore norvegese Bror Magnus Tødenes, allievo di Elisabeth Norberg-Schulz e vincitore al concorso Renata Tebaldi nel 2015. Diciamolo subito: la voce non è astrattamente adatta per la parte, non è abbastanza robusta, ma il cantante se la cava veramente con onore, dimostrando un’apprezzabile sicurezza, soprattutto se si tiene conto del fatto che è stato quasi scaraventato sul palcoscenico dall’oggi al domani con, presumibilmente, poche prove. Si tratta di un tenore fra il lirico ed lirico-leggero, che in Verdi sarebbe più adatto a Fenton o Alfredo, o a Nemorino o Lenski, però si è veramente comportato bene. La voce è chiara, bella, pulita e c’è una buona pronuncia italiana (dal curriculum si vede che ha studiato anche al Conservatorio di S. Cecilia a Roma). Il tenore non tenta di scurirla, ma canta la parte secondo le sue possibilità, senza sforzarsi. Veramente bravo ed infatti è stato assai applaudito. Se non si rovina, potrebbe essere in futuro un punto di riferimento per il repertorio da tenore lirico.
Non troppo esaltante il Malcolm di Louis Zaitoun, dalla voce troppo piccola, da far sembrare Tødenes un nuovo Bergonzi. Meglio la dama di Clémence Poussin (proprio brava nella sua piccola parte) del medico di Patrick Bolleire. Le altre parti erano tenute da membri del coro dell’Opera, fra cui mi sembra di dover citare in particolare Paolo Stupenengo e Sophie Lou, che, come apparizioni, nonostante un’orrenda amplificazione, hanno dimostrato di aver belle voci e di saperle ben usare.
Il coro, nonostante tutte le difficoltà causate dalle insensate, idiote, illogiche, dissennate, sconclusionate, scriteriate, folli, pazzesche, sconsiderate scelte registiche per quanto ne attiene il posizionamento in scena si è comportato benissimo, pur con tutti i problemi di cui si è già detto sopra. Coesione, potenza, giuste dinamiche, bel suono, veramente “verdiano”. Rispetto alla sera precedente ha cantato decisamente meglio, più in stile. Credo che ciò derivi dal fatto che il maestro del coro era diverso, in quanto per Macbeth la preparazione delle masse corali era affidato al M° Marco Ozbic, musicista triestino già Kapellmeister dei Wiener Saengerknaben, assistente del coro all’Opera di Vienna a fianco di Seiji Ozawa, maestro del coro del San Carlo di Napoli e dell’Opera di Helsinki. Il lavoro da lui effettuato sul coro può solo definirsi eccellente, soprattutto se lo immagina alle prese con le difficoltà derivanti dalla folle regia. Da italiano ha veramente l’idea di cosa è il vero suono corale e lo stile verdiano; rispetto al Don Carlos della sera prima le sonorità dello stesso coro prendono una dimensione ben più adeguatamente rotonda e ricca. Veramente bravo.
Della concertazione e direzione di orchestra del M° Daniele Rustioni non posso che ripetere tutto quanto già scritto a proposito del Don Carlos. Ottima. Il direttore ha cercato con generosità e coraggio di trasmettere uno spirito ed una sonorità verdiana ad un’orchestra che non mastica veramente troppo questo linguaggio (anche per le scelte di repertorio del teatro) e che si trova più a suo agio nel repertorio novecentesco maturo e che, quindi, manca spesso di autentico lirismo e canto “italiano”. L’opera è stata condotta con sicurezza e proprietà, i cantanti erano sorretti e non sommersi dall’orchestra. Giustamente alla fine è stato molto applaudito, così come tutti i cantanti, l’ottima orchestra ed il coro.
Anche se non vi ho assistito, avendo parlato con alcune persone che lo hanno sentito, posso riferire sinteticamente, anche se solo de relato, qualcosa sull’esecuzione in forma di concerto di Attila all’Auditorium M. Ravel, sede dell’ottima orchestra sinfonica cittadina. Pertanto, così mi è stato detto: Il soprano Tatiana Serjan, già Odabella sotto la bacchetta di Muti, pur data per malata, ha difeso con grande onore il suo terribile ruolo (bella energia dagli acuti ai gravi). Massimo Giordano (Foresto), pur con piuttosto piccina, se l’è cavata, tutto sommato, con onore. Alexey Markov (Ezio), è dotato, per ovvie ragioni territoriale, di una voce tipicamente di scuola russa, bella, ben educata, ma non adatta al ruolo (ottimo, invece, era parso, negli anni passati nel repertorio tchaikovskiano); appariva forse un poco stanco, con acuti un po’ opachi. Dmitry Ulyanov (Attila), ha i difetti del cattivo canto slavo: tanta voce, vibrato stretto a causa di una voce troppo spinta, portamenti e vezzi da scuola del muggito. Taglia il da capo della cabaletta poiché è già in difficoltà al finale nell’eseguirla una volta sola. Grégoire Mour come Uldino, ha la voce giusta per il ruolo e si disimpegna bene. Molto bene Paolo Stupenengo come Leone. Direzione energica ed ispirata, ricca di nerbo e lirismo, del M° Rustioni, infaticabile nonostante fosse alla sua terza “prima” consecutiva (venerdì Macbeth, sabato Don Carlos, domenica Attila). Il coro, anche se troppo esiguo in numero per le esigenze della partitura (una quarantina di cantanti non bastano per Attila, soprattutto in una sala grande come l’Auditorium Ravel) si è comportato bene, nonostante un colore un po’ troppo chiaro e poco “verdiano” (soprattutto nelle voci acute, soprani e tenori), più o meno gli stessi problemi sul colore e la copertura del suono riscontrati nel Don Carlos.
Ed ecco le novità.
La prossima stagione lionese aprirà – udite, udite! – con il Mefistofele di Boito, con protagonista John Relyea, diretto dal M° Rustioni, che poi dirigerà anche, in forma di concerto, il Nabucco con Leo Nucci ed Anna Pirozzi. Poi un’opera contemporanea, Lessons in Love and Violence di G. Benjamin, Da una casa di morti di Janaceck affidata al truce Warlikowski (quanti lavandini ci saranno nella prigione siberiana?) e Rodelinda di Handel con il teutonicamente prevedibile Guth, L’Heure espagnole di Ravel e Barbe-Bleu di Offenbach con la regia di Pelly. Nel festival primaverile, un titolo davvero raro quale La maliarda di Tchiakovskj, Didone ed Enea ed Il ritorno di Ulisse, poi il Roméo et Juliette di Boris Blacher ed un’opera per ragazzi Les Enfants du Levant, d’Isabelle Aboulker. Questo è quanto si scopriva dalla presentazione dell’opera in anteprima per i giornalisti che c’è già stata e dalla notizie che si trovano sui siti d’oltralpe. Ovviamente grande enfasi a proposito dei registi, poco o niente su direttori e cantanti…
Un pensiero su “Don Carlo de Vargas a Lione. Seconda parte: Macbeth.”
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Rustioni é un bravo ragazzo ma le sue scelte in fatto di tempi le trovo a volte discutibili. L’ultimo ascolto mio personale che lo riguarda é l’adelson e salvini di opera rara ma ho abbandonato quasi subito..oltretutto non capisco perché poi la Barcellona.