Ogni anno, fra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, l’Opera di Lione propone, all’interno della propria stagione lirica, un festival lirico dedicato o ad un argomento (anni fa vi sono stati “Justice et injustice” e “Festival pour l’humanité”, il prossimo anno sarà “Vie et destins”), con opere più o meno attinenti allo stesso, o ad un compositore; qualche anno fa fu fatto un piccolo festival dedicato a Britten, quest’altro ad essere omaggiato è Verdi, con l’esecuzione in forma di concerto dell’Attila, già presentato per una serata in autunno nella stessa forma, ma con diverso protagonista, la rappresentazione del Macbeth, nella stessa orribile messa in scena ammannita al pubblico alcuni anni fa e, soprattutto, la rappresentazione in forma integrale (ma vedremo che così non sarà) del Don Carlos nell’edizione originale francese del 1867.
In particolare la possibilità di assistere alla tutt’altro che frequente versione originale del Don Carlos mi ha fatto partire per Lione (il viaggio in treno da Torino è – se le ferrovie italiche e galliche non ci mettono lo zampino… – abbastanza agevole e rapido) per trascorrere il fine settimana delle Palme, passando due giorni di full immersion operistica verdiana, Don Carlos sabato sera e Macbeth domenica pomeriggio.
Punti di forza dell’Opera di Lione sono l’orchestra ed il coro, entrambi di un livello decisamente elevato.
La prima, dopo essere stata diretta per alcuni anni da Kazushi Ōno, ora ha per direttore stabile il giovane e bravo maestro milanese Daniele Rustioni. Il secondo, da quando il M° Alan Woodbridge ne ha lasciato la direzione è senza un maestro stabile, sì che nel corso della medesima stagione, vi possono essere maestri differenti per le differenti opere, con anche palesi differenze di resa a secondo di chi sia stato a preparare ed a dirigere il coro, come ho potuto constatare de visu, anzi de auditu io stesso.
Ma passiamo a quello che più importa, le opere verdiane.
Il giudizio, per entrambe, si può sintetizzare in pochi identici concetti: messe in scena ridicole, balzane, errate se non pessime (nello stile della maison), bella concertazione e direzione, buone prove di orchestra e coro (con alcune variabili, vide infra), cantanti nel complesso accettabili, chi più, chi meno.
Partiamo dal Don Carlos, ascoltato nella recita serale di sabato 24 marzo.
L’ascolto di siffatto monumentale grand-opéra nella versione originale francese in cinque atti del 1867 è invero raro ed è un vero tour de force per gli spettatori non meno che per gli esecutori.
Innanzi tutto non è facile sentirlo: in Italia era accaduto al Regio di Torino nel 1990 quando, per festeggiare i 250 anni del teatro, si erano eseguiti contemporaneamente il Don Carlos francese “originale”, con Ghiuselev quale Filippo, ed il Don Carlo nella versione in 5 atti c.d. di Modena, con Scandiuzzi, in entrambi i casi con direzione e regia di Gustav Kuhn. Allora io avevo sentito la versione italiana ed era stata una cosa entusiasmante, mi ricordo in particolare Scandiuzzi e Servile come Rodrigo, ma tutti i cantanti erano mediamente bravi, bravi orchestra e coro, buona la direzione, meno la messa in scena (per forza, il direttore-regista è tedesco!), ma non troppo disturbante.
Non mi vengono in mente altre esecuzioni italiane più recenti (ma potrei sbagliarmi); c’è stata un’esecuzione viennese diretta da De Billy con una terrificante regia di Konwitschny (il balletto della regina aveva ad oggetto un arrosto bruciato nel forno…) ed in questa stessa stagione anche l’Opéra di Parigi lo ha presentato, con Kaufmann, la Yoncheva, Abdrazakov, Tézier e la Garanca (questi ultimi due, secondo le critiche, pare siano stati bravissimi), sotto la direzione di Jordan e con la solita vomitevole regia di Warlikowski. L’edizione parigina diretta da Pappano con Alagna e Van Dam (la cui messa in scena era stata ripresa nel 1997 a Lione con diverso direttore ed alcuni diversi interpreti) non mi pare fosse veramente integrale, né rispettasse in toto la versione del 1867. Discograficamente, poi, se non erro, l’unica esecuzione integrale in studio del Don Carlos parigino dovrebbe essere quella diretta da Mattheson nel 1973, cui dovrebbe affiancarsi la captazione live dell’edizione viennese di cui si già detto. L’incisione di Abbado per la DG con Raimondi, Ghiaurov, Nucci, Ricciarelli e Valentini-Terrani, infatti, è la versione modenese dell’opera cantata in francese, con l’aggiunta in appendice dei brani dell’edizione del 1867.
La proposizione dell’edizione originale è di estremo interesse, dando modo di capire quali modifiche sono state effettuate da Verdi in vista della più concisa versione milanese del 1884. Sintetizzando (rinvio per una più compiuta trattazione a quanto scritto dieci anni in proposito su questo stesso sito: http://www.corgrisi.com/2008/12/quale-don-carlos/), le differenze più rilevanti fra la versione originale, quella milanese e quella modenese sono:
– al primo atto l’inizio dell’opera con il coro dei boscaioli, con cui Elisabetta si ferma a parlare (se mi ricordo bene, il brano venne già tagliato durante le prove, sì che l’opera iniziava direttamente con il coro dei cacciatori);
– al secondo atto l’incontro fra Carlo e Rodrigo, ed il duetto finale Filippo-Rodrigo;
– al terzo atto la scena nel giardino della regina, con i cori, lo scambio di maschere fra Elisabetta ed Eboli ed il balletto, tutti brani poi eliminati (anche se il coro è stato ripreso in qualche edizione moderna, come quella di Karajan a Salisburgo negli anni ’50), con l’inserimento del bellissimo preludio all’ingresso di Don Carlo;
– al quarto atto, le scene che seguono il duetto Filippo-Inquisitore sono modificate, fino a “O don fatale”; nella scena del carcere, dopo la morte di Rodrigo, c’è una scena in cui Filippo duetta con Carlo e compiange la morte di Posa; dopo il taglio Verdi ne utilizzerà la melodia nel Requiem;
– al quinto atto, nella versione originale, il finale è più ampio (imprecazioni di Filippo e dell’Inquisitore, risposte di Carlo, cori di monaci etc.), mentre nella versione definitiva tutto diventa più conciso con le poche frasi che sappiamo, prima dell’apparizione del frate-Carlo V.
Nel complesso, anche se nella versione originale vi sono alcuni momenti molto belli (uno per tutti il coro dei boscaioli), mi pare che Verdi, guidato dal suo infallibile istinto, abbia solo migliorato l’opera tagliando ed aggiustando con grande maestria. A mio parere, ad esempio, il duetto Filippo-Rodrigo è migliore nella versione definitiva, così come il finale.
Le oltre quattro ore molto abbondanti dell’opera (in Don Carlos Verdi, in quanto a lunghezza, dà dei punti a Wagner) erano proposte con un solo intervallo, a metà del terzo atto, fra la scena del giardino della regina e quella dell’autodafé. Ciononostante lo spettacolo nel complesso durava quasi cinque ore. È chiaro che, se si fossero fatti più intervalli, nei punti previsti dalla partitura, la serata sarebbe durata molto di più, però, d’altra parte, due sole parti, rispettivamente (da programma di sala) di 2 ore e 7 minuti circa e di 2 ore circa mettevano, alla prova la resistenza degli spettatori (soprattutto per i loro problemi “idraulici”) e degli esecutori.
Fatto sta che il teatro era pieno in ogni ordine di posti ed il pubblico ha, nel complesso, accolto bene l’opera.
Prima di tutto non si può che elevare un plauso al M° Daniele Rustioni, giustamente molto applaudito alla fine dell’opera, che ha saputo condurre a termine l’esecuzione di un titolo così difficile ed impegnativo, alla guida di un’orchestra di eccellente livello, anche se in pochi momenti si sentivo delle minime sbavature. I cantanti, anche se non possedevano voci possenti alla Giulio Neri, Ebe Stignani o Franco Corelli, non erano mai coperti, ma, anzi – e qui si vede anche il lavoro di concertazione – aiutati (a differenza di ciò che avveniva con la regia).
L’ottimo coro lionese, diretto per questa volta dal M° Denis Comtet, è stato, nel complesso, ad un buon livello, ma si sentivano dei problemi, in particolare per quanto attiene agli attacchi, che in alcuni momenti risultavano imprecisi, nel senso che una parte del coro, talvolta, entrava un brevissimo attimo prima di un’altra. Tempi infinitesimali, forse tali che uno non troppo aduso all’opera non se ne sarebbe potuto accorgere, ma che all’orecchio di chi come me – non è per vantami – conosce il Don Carlo quasi a memoria risultano evidenti. Le ragioni di ciò mi potevano da un lato ricondurre ai problemi portati dalla messa in scena (i soliti registi incompetenti che non capiscono nulla di opera e delle esigenze sonore e fanno tutto a casaccio! ah Visconti perché sei morto!): ad esempio, nel primo atto parte del coro occupava metà della scena, mentre un’altra metà occupava uno spazio laterale, in gran parte fra le quinte; già solo ciò può portare a sfalsature fra le due sezioni del coro. In casi simili il maestro del coro dovrebbe, con l’aiuto, eventualmente, dei suoi sostituti, dare alla sezione più distante, aiutandosi con un monitor, l’attacco un attimo infinitesimale prima del resto del coro, di modo che il suono arrivi poi al teatro nello stesso momento, e non come un eco, cosa che in uno o due momenti nella recita de qua è capitata. Nel secondo atto le dame erano sparse per il palcoscenico senza una logica, ed ancora meno logico era il posizionamento dei coristi nel giardino della regina, su vari piani distanti fra loro anche molti metri in profondità. Nella scena dell’autodafé il coro era incasellato sui tre piani di una costruzione, con i cantanti tutti vicinissimi fra loro, anche troppo, sì che con 60-70 persone compresse in poco spazio, quelli dietro potevano avere evidenti difficoltà a vedere il direttore d’orchestra e si produceva un suono di una potenza forse persino troppo forte e fastidioso per chi si trovava in mezzo. Poi, per l’incasellamento ed imbottigliamento di tutti i vari cori, che da libretto dovrebbero essere distinti (popolo, frati, nobili), in un’unica struttura, si perdeva il senso “spaziale” dei cori stessi che immagino Verdi abbia voluto.
Per quanto attiene ai cantanti è necessario fare una premessa: non siamo di fronti a grandi voci quali sarebbero necessarie per la partitura verdiana (i soli due bassi, nel loro periodo migliore, erano in possesso di voci tali da consentir loro di farsi sentire senza problemi in un grosso teatro), anzi, le voci sono forse in gran parte sottodimensionate per l’opera (come ormai, purtroppo, capita sin troppo spesso), ma, complici le piccole dimensioni della sala lionese – se essa è estesa molto in altro, con sei balconate, l’area della platea non credo sia maggiore di quella del Coccia di Novara, sì che da posti nemmeno troppo vicini al palcoscenico è possibile vedere bene in cantanti in viso ed anche negli occhi, cosa che al Regio di Torino ci si sogna – i cantanti riescono a farsi sentire bene dappertutto (io ho seguito l’opera dalla quinta balconata, in alto, in alto, in alto, in alto, a rischio vertigini, poiché lì si è quasi a precipizio). A loro lode va detto che era evidente il loro impegno, lo studio dell’opera ed il lavoro fatto con il direttore, per quanto lo abbiano consentito i tempi dedicati a sua maestà il regista, che a Lione, come in Germania non sono mai pochi!
Il tenore Sergey Romanovsky (Don Carlos) aveva avuto tre anni fa un buon successo a Lione come Antenore in Zelmira di Rossini (!) ed ora vi ritorna con una parte di tutt’altro genere, il che sarebbe parso una scommessa fin troppo azzardata, ma per sua fortuna se l’è cavata, anche se siamo proprio ai limiti massimi cui può spingersi. Intendiamoci, la voce è abbastanza leggera, bella, di colore chiaro, e correva in teatro. Ovviamente niente a che vedere con cantanti quali Filippeschi, Bergonzi o Corelli; Carreras, come volume e peso vocale, al confronto è un Merli bis. Però, nel complesso, se la cava, anche se al “Je serai ton sauveur, noble peuple flamand”, già fatale pure a Pavarotti, in italiano, nel 1992, proprio non ci arriva. Non si sono sentiti suoni brutti e cercava di interpretare. Meglio, però, che in futuro lasci perdere parti verdiane così onerose. In un teatro piccolo se l’è cavata onorevolmente, altrimenti non so se sarebbe la stessa cosa.
Il soprano Sally Matthews (Elisabeth) mi è stato riferito essere stata decisamente brava alla prima dell’opera. Alla recita cui ho assistito io, invece, qualcosa non funzionava, dato che la prestazione della cantante inglese è risultata un poco altalenante. Nel primo atto non funzionava molto, nel secondo è decisamente migliorata; successivamente il “Toi qui sus le néant” non è del tutto soddisfacente, evidenziandosi qualche asprezza e stanchezza. Nel complesso: cantante bene educata e non sprovveduta tecnicamente, ma evidentemente non in forma. Anche per lei vale quanto si è detto per il tenore: parte forse troppo onerosa, funziona perché il teatro non è troppo ampio.
Il mezzo soprano Eve-Maud Hubeaux, che a Parigi lo scorso ottobre era stata Thibaud, a Lione – dove due anni fa era stata una buona Andromaca in Ermione, sotto la bacchetta di Zedda – viene promossa Eboli. Storicamente Ana Mendoza de la Cerda, Principessa di Eboli, Duchessa di Pastrana aveva perso l’occhio destro, perciò vi portava sopra una benda. Essendo troppo banale, quindi, farla apparire in scena con una benda sull’occhio il regista le ha regalato un’altra infermità: Eboli – tranne nei rari momenti in cui si alza, con difficoltà, appoggiata a un bastone – canta tutta l’opera seduta su una sedia a rotelle (e la cosa credo porti con sé anche delle difficoltà), con una gamba ingabbiata in una protesi e con l’altra gamba spesso ignuda. Incidentalmente, dalla galleria le gambe non appaiono affatto spregevoli. Fortunatamente anche la voce è tutt’altro che spregevole, anzi, è decisamente bella. Tecnicamente e stilisticamente mi è parsa abbastanza a posto. Direi che, anche per le caratteristiche vocali della cantante (forse dovrebbe dedicarsi più a Rossini che alle parti da Falcon), mi è piaciuta di più nella canzone del velo che in “Ô don fatal” (peraltro molto applaudito dal pubblico), dove è risultata in difficoltà nell’acuto su “Je te maudis, ô ma beauté”. Nel complesso, però, la cantante non mi è affatto dispiaciuta. Alla fine è stata applauditissima dal pubblico.
Applauditissimo dal pubblico – anche perché giocava in casa, essendo l’unico francese fra i sei protagonisti e si sa che i francesi un poco sciovinisti lo sono sempre stati – è stato pure il baritono Stéphane Degout (Posa). Si tratta di un classico baritono francese di oggi, un poco nasaleggiante, con voce un poco chiara, non immensa, anche se non brutta, ma neppure memorabile. Direi che – rimanendo oltralpe – quando lo avevo sentito per la prima volta a Torino in Hamlet, molti anni fa, Ludovic Tézier mi aveva fatto ben altra impressione. Tutto sommato, però, funzionava, anche grazie all’interpretazione.
Passiamo, finalmente, ai due bassi, gli unici italiani fra i protagonisti, Michele Pertusi (Filippo) e Roberto Scandiuzzi (inquisitore), su cui si possono esprimere pareri sostanzialmente simili: la voce non è più quella di una volta, ma è evidente che, quando c’è la tecnica e c’è lo stile, un cantante riesce a cavarsela anche quando la voce sta andandosene o se ne è andata.
Dopo trent’anni e più di carriera, entrambi non hanno più la voce di un tempo e si sente, ma si sente anche la personalità fortissima dei cantanti e la loro scuola.
Pertusi, la cui voce non ha più la polpa, gli armonici e la rotondità di un tempo (mi ricordo ancora un magnifico Assur pesarese nel 1992, quando la voce di Pertusi risuonava in tutto il palafestival), non parrebbe a primo acchito il cantante più adatto a fare Filippo II, benché abbia interpretato recentemente il sovrano asburgico anche in Italia (da buon parmigiano la tentazione di cantare Verdi è sempre grande). Come tipologia vocale è sempre stato forse più adatto al repertorio rossiniano e della prima metà dell’ottocento, o al Mozart italiano, con limitate incursioni nel repertorio verdiano. Non è sicuramente un Filippo da arene estive, anche se la voce è sostanzialmente ben proiettata e si sente, ma sa interpretare e mette a fuoco il personaggio. Direi che l’esecuzione è in crescendo, partendo da un secondo atto in cui la voce deve ancora mettersi a fuoco, per poi passare ad un terzo atto in cui si dimostra la dovuta autorevolezza, ad un quarto atto in cui comincia la sua aria (forza dell’abitudine!) con un “Ella giammai”, subito corretto con un seguente “Ne m’aime pas!” ed un buon duetto con l’Inquisitore.
Quest’ultimo è Roberto Scandiuzzi, forse l’unica voce veramente adatta a cantare Don Carlos senza il minimo problema anche in un teatro di grandi dimensioni. Io me lo ricordo splendido Filippo II a Torino nel 1990, capace di affrontare senza il minimo problema la non facile parte, con uso calibrato sia di fortissimi sia di mezze voci, interpretativamente azzeccatissimo. Qui a Lione è l’Inquisitore, che entra in scena con moderni occhialini neri da cieco; cambia il ruolo, non mutano la classe, la scuola e la capacità interpretativa. La voce anche per lui non è più quella di un tempo, si è smagrita, però è sempre una vera voce di basso, e la classe, la tecnica, l’esperienza e lo stile si sentono sempre.
Solo corretto il monaco di Patrick Bolleire. Parti di fianco di valore variabile, con una nota di merito per Jeanne Mendoche (Thibault) e Caroline Jestaedt (une voix d’en haut).
La messa in scena è affidata per la regia a tale M. Christophe Honoré, che si apprende dal programma di sala essere scrittore, cineasta e teatrante ed a cui Lione ha già confidato, anni fa la regia dei “Dialoghi delle Carmelitane” (scena unica moderna, con le monache che alla fine finiscono giù da una finestra, quale novelle Tosche in tonaca!) e poi di un “Pelléas et Mélisande” che dalle foto che circolano in rete sfido a capire essere il “Pelléas et Mélisande”. Dal programma di sala vedo poi che è stato lui il colpevole dell’orrendo “Così fan tutte” datosi al festival di Aix due anni fa, in cui la grande idea portante era l’ambientazione nelle Colonie dell’Africa Orientale Italiana in epoca littoria, “quando c’era LUI!”. Visto un poco sul tubo, ‘na roba terrificante in tutti i sensi, come bene espresso a suo tempo da Tamburini (http://www.corgrisi.com/2016/07/frere-streaming-cosi-fan-tutte-dal-festival-daix-en-provence/). Tacere sulle sue asserzioni nel programma di sala è solo bello.
Dati siffatti presupposti, non si può che imputare sia alla direzione lionese che al regista una recidiva reiterata specifica aggravata nel reato di tentato omicidio di opera lirica.
Ciò premesso, per quanto la messa in scena fosse brutta, le cose sono andate un po’ meno peggio del prevedibile. Le scene di Alban Ho Van in gran parte erano fatte utilizzando tendaggi messa in una posizione piuttosto che in un’altra, con l’aggiunta di vari elementi, praticabili, muri, scalini; i costumi di Pascaline Chavanne erano brutti e senza un senso generale: ovviamente non era comprensibile l’epoca in cui l’opera era ambientata, dato che alcuni avevano almeno un lontano accenno di cinquecentesco, altri erano piattamente moderni (calzoni scuri e camicie bianche per gli uomini, orrende mises per le donne), mentre i frati erano più o meno vestiti da frati con un crocione rosso dipinto in faccia. La coreografia (?) di Ashley Wright era semplicemente una vera schifezza (vide infra).
Nel primo atto, ovviamente niente foresta, ma un lato della scena spoglio, l’altro con dei praticabili, su cui arriva Elisabetta. Primo grave errore del regista, poi reiterato più volte nel corso della recita: Elisabetta e Carlos non sono mai lasciati soli quando, invece, dovrebbero essere da soli; qui sono sempre seguiti da dei “satelliti” che parevano entrambi di razza nera, uno per ciascuno. Lo stesso nel secondo atto. Quando poi arriva il re che dovrebbe trovare sola la regina, costei sola non è, proprio come avviene nella recite più provinciali. Ancor peggio nella prima scena del quarto atto, Filippo II non è solo, ma, seduto su uno sgabellino o seggiolino, assieme ad un tale che gli fa – per quanto potevo vedere dalla quinta balconata – delle spugnature alla schiena! Ovviamente i registi non sono in grado di comprendere nei loro augusti angusti cervellini che se un personaggio deve stare solo in scena, quello deve stare solo in scena, mentre se un personaggio deve essere in scena con altri, quello deve essere in compagnia (ciò è accaduto nel Macbeth visto domenica 25, in cui il protagonista parlava da solo con un coro che, da libretto sarebbe dovuto essergli vicino, mentre era dietro le quinte).
Il convenuto di San Giusto da un lato sfoggia un tendone, dall’altro, almeno un dipinto con un gigantesco crocifisso, di fronte a cui si apre una scala che porta – si presume – alla tomba di Carlo V.
Il colmo del risibile è raggiunto nella scena del giardino della regina: la festa è un gruppo di poveri idioti di ambo i sessi con orridi abiti (le camicie degli uomini in gran parte sul petto), presumibilmente avvinazzati, tutti con un velo in faccia (il che aiuta molto il canto, come ognuno può immaginare!) che sono posti in vari luoghi della scena, proprio in modo da non favorire affatto la coesione del coro. Ma ciò che batte tutto è il balletto, se di balletto si può parlare per l’agitarsi scomposto da neurodeliri e TSO immediato di un gruppo di soggetti apparentemente del tutto oligofrenici, che si muovono senza senso sotto una pioggia d’acqua che cade dall’alto a metà palcoscenico (fra l’altro disturbando non poco la musica….), sguazzandoci sotto, gettandosi per terra e rivoltandosi fra acqua e fango, con movimenti inconsulti. Il senso di tutto ciò: boh! Il tutto era così orrendo e senza senso che – cosa incredibile per l’Opera di Lione, il cui pubblico è tanto, tanto, troppo buono, sopporta tutto, tutto beve e tutto ingurgita – si sono sentiti persino alcuni sonorissimi “buh”! La cosa mi ha lasciato così attonito (mai sentito buare a Lione tutte le volte che vi sono stato!) che non ho avuto neanche il tempo di buare pure io. Ovviamente nel terzetto Eboli (che si fa vedere da dietro una tenda, con il solo braccino fuori, dato che, stando sulla sua bella sediuccia a rotelle, Carlo se no, la avrebbe potuta riconoscere subito), Carlo e Posa non sono mai soli….
La scena in complesso più riuscita, come impatto complessivo, è quella dell’autodafé, risolta, in altezza, con una costruzione a tre livelli, posta al proscenio, in cui sono incasellati popolani, nobili, frati, sovrani e poi Carlo ed i deputati fiamminghi. Quattro eretici sono appesi sul davanti e poi, alla fine, cala dall’alto un lungo braciere con vere fiamme su cui si immagina verranno arrostiti. Il problema di tale articolazione della scena è che non c’è il minimo spazio per fare la processione prevista in libretto e partitura, per cui la bella marcia composta da Verdi viene tagliata, manco fossimo in un teatrino di provincia! Anzi, in provincia la fanno, dato che a Modena qualche anno fa era eseguita,
a differenza di come avviene attualmente in quel di Vienna, anche qui per evidenti ragioni registiche.
Ma, allora, mi chiedo, che senso ha dare un Don Carlos nella versione originale integrale, con la reintegrazione di tutti i brani poi cassati (coro dei boscaioli, festa del terzo atto, lamento di Filippo sul cadavere di Posa, finale con maledizioni, etc.), quando poi si taglia la marcia dell’autodafé? Sicuramente non ragioni di tempo, perché non sono quei due minuti che rendono l’opera più lunga. Stando così le cose, e dato che di solito è pagato profumatamente per quello che (solitamente male) fa, a questo punto spetterebbe al signor regista di turno spremersi le meningi per trovare una soluzione su cosa fare durante la musica della marcia. Molti altri registi (ad es. Visconti, Ronconi – anche se mi pare che nel 1977 alla Scala ci fosse un breve taglio – Zeffirelli, Dexter, De Ana, Hytner, Bondy) ci sono riusciti, il che dimostra che la cosa non è inattuabile.
Anche nel quarto atto è quasi impossibile vedere da soli i personaggi che dovrebbero essere soli (già si è detto del monologo di Filippo che è, invece, in compagnia). Nel quinto atto, tutto sommato succede quello che dovrebbe succedere, con tanto di coro incombente di monaci, anche se non si capisce il senso del bambino biancovestito che esce dalla tomba di Carlo V.
Nel complesso: la regia almeno rispetta a grandi linee la trama dell’opera, pur con varie ed abbondanti stramberie, cavolate unite ad abbondanti banalità, e cose già viste e straviste, con effetto di una certa noia aleggiante sopra l’opera.
In ogni caso l’ascolto della versione originale – data anche la sua rarità – è sempre cosa del massimo interesse e Lione ha fatto bene a proporla, pur con tutti i distinguo di cui sopra. Peccato che, dato il taglio di cui si è detto, non era veramente integrale!
Attenzione, correggete il titolo :.)
Circa i due duetti originali di Parigi, che furono cantati anche a Torino , mi pare che l’edizione Emi di Pappano li contenga entrambi . Sono anche presenti nei due dischi di duetti Hadley -Ramey e Hampson.- Ramey. Di questo son sicuro..
Scusate il “lapis”: intendevo Hadley – Hampson, per il duetto tenore baritono, ovviamente.