In quest’ultimo scampolo di stagione pre Maggio, l’Opera di Firenze propone Alceste di Gluck, nella versione concepita per Vienna. Le precedenti apparizioni del titolo nelle stagioni del teatro mediceo (1935 e 1966, entrambe sotto la direzione di Vittorio Gui) avevano proposto l’opera nella versione tradizionale, ovvero quella francese tradotta in italiano. A trent’anni di distanza era mutata la protagonista, a Gina Cigna succedendo Leyla Gencer, ma non era mutata l’idea che l’opera “riformata” richiedesse una bacchetta e una primadonna in grado, per dote naturale o per virtù d’accento e di concertazione, di restituire, in uno con il clima ultraterreno di scene sacrali e ctonie, la tragedia della regina, sposa, madre, di esemplari ed elette virtù. Nulla o ben poco di tutto questo può rinvenirsi nell’attuale spettacolo fiorentino, al cui nominale sold out non ha fatto seguito (in occasione della pomeridiana di domenica 25 marzo) analoga affluenza di pubblico, con diversi posti vuoti in platea anche dopo l’unica pausa (collocata verso la metà del secondo atto).
Non da oggi consapevole delle bizzarrie acustiche della in ogni senso faraonica sala, dopo aver assistito al “primo tempo” da un posto di palco laterale, mi sono spostato in platea, constatando un sensibile cambiamento negli equilibri e impasti orchestrali (dai cosiddetti posti di ascolto si ascoltano, più che altro, fiati e ottoni, questi ultimi spesso stonacchianti, mentre gli archi sembrano suonare sempre in sordina). Ho potuto quindi apprezzare al meglio la direzione di Federico Maria Sardelli, contrassegnata da scelte di tempo piuttosto vivaci (ma non forsennate) e da una costante ricerca del “colore” orchestrale di volta in volta più consono al momento drammatico. Gli occasionali slittamenti di intonazione (ivi compresi quelli del coro e dei corifei) intaccano solo in parte il valore della lettura, e tutto sommato il clima del lavoro gluckiano, la sua altera severità non esente da fremiti preromantici emergono meglio che non, giusto per citare un esempio recente, nell’Orphée recentemente udito alla Scala. Mi lasciano, per contro, decisamente perplesso i tagli inflitti al lavoro, soprattutto nella scena in cui la Regina invoca i Numi infernali e in quella dell’addio al marito (in quest’ultima viene addirittura soppresso il recitativo in cui Alceste comunica ad Admeto chi sia il volontario capro espiatorio, rendendo di fatto incomprensibile il proseguimento dell’opera). Posso immaginare che simili scelte, prossime al paradossale per un direttore avvezzo a pratiche di rigore filologico, siano state imposte dal teatro (in questo modo, lo spettacolo non supera le tre ore “canoniche”, intervallo incluso), ma la disinvoltura dei tagli non aiuta, paradossalmente, la fluidità dello spettacolo, gravato anche dalla paludata realizzazione scenica di un Pier Luigi Pizzi al minimo sindacale: un colonnato che evoca il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, parchi elementi d’arredo (fra cui un letto/catafalco stile Laura Adorno, un “albero d’Averno” a base di teschi e un tavolo più adatto a un picnic fuori porta che non a una reggia di epoca classica), scalinate su cui stazionano i coristi (con tanto di défilé durante i preludi), costumi in bianco e nero, stilizzate gestualità dei mimi che mal si conciliano con annotazioni piccolo borghesi come Alceste che, rediviva, distribuisce baci e buffetti a figli e marito. Dove il dramma, dove l’elemento “nuovo e terribile” in tutto questo, non è dato sapere.
Neppure si comprendono le ragioni che possano avere spinto il teatro fiorentino a proporre un’opera come questa, di fatto incentrata sul protagonismo assoluto della primadonna, disponendo di una cantante in ogni senso limitata come Nino Surguladze. Che la signora venga presentata come mezzosoprano è cosa che non può mancare di suscitare meraviglia, atteso che la prima ottava suona regolarmente sorda e fuori fuoco, al punto da risultare coperta dall’orchestra (di dimensioni tutt’altro che wagneriane). Le cose vanno un po’ meglio nella regione medio-acuta, ma sovente a prezzo di suoni striduli e gridati, che dell’estetica neoclassica sono la negazione più completa. Al di là dell’articolazione del testo (di buon livello, e l’osservazione vale anche per il resto del cast), sarebbe improprio parlare di interpretazione, tanto la realizzazione vocale risulta claudicante. Più impegnato sotto il profilo espressivo, e con i (soliti) limiti in zona di passaggio superiore resi meno evidenti dall’insistenza della parte nel registro centrale, l’Admeto di Leonardo Cortellazzi. L’Ismene di Roberta Mameli, pur con qualche difficoltà di intonazione nella sua aria del secondo atto, sfoggia una voce meglio impostata di quella della sua signora, mentre altrettanto non può dirsi dell’Evandro di Manuel Amati, tenore al più da mezzo carattere, quindi sottodimensionato nel cruciale ruolo del corifeo. Nella parte decisamente acuta del Sacerdote d’Apollo Gianluca Margheri sfoggia, in uno con una fisicità statuaria, una voce del tutto priva di punta, ovattata e indietro, al punto che viene da pensare a un tenore non “sfogato” che canti, con inumana difficoltà, in tessitura da baritono. Le voci bianche, cui sono affidate le parti dei principini, confermano le difficoltà (sia sotto il profilo dell’intonazione, sia nel coordinarsi con l’orchestra) che incontrano di solito i giovani cantori quando siano chiamati a prendere parte a uno spettacolo d’opera.