Prosegue la stagione del Comunale bolognese: dopo la Bohème e i toni epici chiamati in causa da recensioni (cartacee e virtuali) che nulla hanno che invidiare ai più pregnanti frutti dell’Arcadia, stavolta la critica “gioca il bonus” dell’elegia a sfondo mistico, dovendo celebrare i fasti dei Dialoghi delle Carmelitane che il teatro emiliano importa, cantanti in larga misura inclusi, dalla Monnaie di Bruxelles e dal Théâtre des Champs-Elysées. L’ironia potrebbe sembrare corriva e irrispettosa e del testo e della realizzazione scenica, vista anche la sacralità dell’argomento. In effetti i primi a non credere, o per meglio dire, a credere limitatamente e superficialmente al testo, alle sue bellezze e peculiarità sembrano proprio i responsabili dello spettacolo, tanto in buca quanto sul palcoscenico. Jérémie Rhorer affronta la partitura di Poulenc con passo spedito e piglio spesso garibaldino, scarsa cura non solo dei dettagli (ma non è che dall’orchestra, invero alquanto disastrata e non da oggi, del Comunale fosse lecito attendersi chissà che) ma, cosa ben più grave, delle atmosfere, essenziali in un dramma in cui la tensione nasce in primo luogo dal succedersi di situazioni drammatiche contrastanti, in un caleidoscopio di frammenti di Storia (e di storie) che vivono, per l’appunto, di opposizioni e sfumature. Nulla, in orchestra, scandisce il passaggio dal mondo, rappresentato dalla dimora del Marchese de la Force, al chiostro, assediato dalla realtà circostante, di Compiègne, dalle schermaglie di Blanche e Constance alla terribile agonia di Madame de Croissy, per non parlare della concreta, “terrena” saggezza di Madame Lidoine di fronte all’esaltazione, fondamentalmente sincera ma non per questo meno (auto)distruttiva, di Mère Marie. L’esecuzione risulta levigata, come anestetizzata, e se alcuni momenti funzionano (uno su tutti, il “Salve Regina” conclusivo, privato di ogni aura trascendente), l’impressione generale è quella di una lettura incapace di cogliere appieno la grandezza dell’opera (indubbiamente una delle maggiori del secondo Novecento), generando, più che altro, una diffusa sensazione di noia. Lo spettacolo di Olivier Py (che non sappiamo se si sia degnato di “scendere” in Italia a curare la ripresa) appare scevro delle esasperazioni e in massima parte dei manierismi che caratterizzano gli allestimenti del regista. La cosa peggiore non sono l’ambientazione nebulosamente anni Settanta (cappotti e palandrane sono un “must” di questo tipo di teatro, del resto), né l’essenzialità delle scene (animate dai bei giochi di luce di Bertrand Killy) e tanto meno l’ingenuità dei “tableau vivant” che, in taluni intermezzi orchestrali, evocano in filigrana capolavori di arte sacra (il cui legame con il testo appare ora peregrino, ora imbarazzante nel suo didascalismo), bensì la sensazione, fortissima, che Py abbia scelto di ignorare, in molti casi, le puntigliose indicazioni del libretto non a seguito di lunga e sofferta analisi della drammaturgia musicale, ma al solo scopo di proporre “qualcosa di nuovo”. Ecco, ad esempio, il Marchese de la Force (emblema dell’indifferenza e della chiusura al “nuovo” dell’ancien régime) che non sonnecchia, ma legge un libro, quando il Cavaliere irrompe nei suoi appartamenti, oppure Blanche e Constance che parlano della difficoltà di procurarsi del grano (a causa degli speculatori che ne fanno incetta) non nel momento in cui si occupano della cucina, bensì mentre passano lo strofinaccio per terra. Tralasciamo poi le sottolineature di dubbio gusto, come l’uso di lavagne didattico-brechtiane, di cui i personaggi si servono per lanciare slogan di gusto più sessantottesco che rivoluzionario. L’unica immagine degna di nota (la morte della vecchia Priora, vista “dall’alto”) è una citazione della “Dama di picche” di Richard Jones (così appariva a Hermann il fantasma della Contessa), anche se va detto che, nello spettacolo originale, la scelta aveva ben diverso significato e più pregnante impatto drammatico. Tra i solisti spiccano Sandrine Piau (Constance di scarso volume, e non è certo una sorpresa, ma piacevole in virtù di una voce ancora sufficientemente giovanile, benché l’esecutrice passi la cinquantina) e Stanislas de Barbeyrac (che, nelle parche frasi di tessitura più elevata del Cavaliere, patisce non poco e intacca significativamente la bellezza timbrica esibita nel medium). La protagonista, Hélène Guilmette, è corretta quanto pallida, ma la vera delusione viene dai tre grandi ruoli “maturi”: Marie-Adeline Henry bercia malamente gli acuti della parte, privando la sua Madame Lidoine di qualunque trasporto nel cruciale secondo monologo, e Sylvie Brunet (al netto dei rantolii) non ha il centro che la parte dell’anziana Priora esige per non essere ridotta a una parte da attrice di prosa, mentre Sophie Koch, voce (ormai disastrata) di schietto soprano lirico, non ha l’incisività richiesta dalla “terribile” Mère Marie.