Gioconda veniva denominata, quando era titolo frequente nei teatri, l’opera delle sei stelle, quasi emula degli Ugonotti, famosi per essere le grand-opéra des sept étoiles. Il capolavoro di Ponchielli è sempre stato titolo da grande teatro in vena e nella possibilità di molto spendere o delle arene estive che volevano far leva sull’aspetto grandioso del titolo. Il sublime e pacchiano frutto del connubio fra tardo Romanticismo e nascente Scapigliatura impone orchestra di grande suono, organo, lussuose scenografie, costumi principeschi, almeno per i personaggi nobili, compagnia di ballo per la celeberrima danza delle ore. E’ anche vero che, talvolta, teatri famosi, ma non di illimitate possibilità abbiano proposto Gioconda, come la cronologia del Regio di Parma e non già del comunale di Piacenza (che in occasione dell’anniversario rossiniano potrebbe essere dedicato alla Pisaroni) conferma.
Il successo tiepido all’inizio della pomeridiana, fattosi vieppiù caldo con vera ovazione per la efficiente ed efficace protagonista alla fine del quarto atto è significativo del bisogno che il pubblico ha di esecuzioni come quella di domenica 18 cui hanno assistito, oltre ad un gruppuscolo di Grisini, loggionisti parmigiani, piacentini e milanesi. A quest’ultimi vorremmo chiedere su quale presupposto e quale logica plaudano questo genuino e provinciale spettacolo come e più di quelli scaligeri dalle caratteristiche opposte, carenti di genuina spontaneità anche quando offrano titoli popolari.
Per essere onesti lo spettacolo piacentino proponeva un modesto e poco inspirato e pensato allestimento di Federico Bertolani che aveva il punto più basso nel terzo atto dove le immagini non evocavano la lussuosa Ca’ d’Oro, ma un accampamento rom e dove la danza delle ore eseguita per la verità su un assito esiguo ad opera di sei ballerini (uno dei quali, secondo le normali consuetudini dello spettacolo di provincia, ha perso una poco adeguata parrucca da carnevale goldoniano) erano davvero modeste e poco adeguate al titolo anche se musicalmente sono state uno dei momenti migliori.
Non solo quanto alla compagnia di canto Francesco Meli, tenore lirico dai centri gonfi e fibrosi, dagli acuti faticosi, dai falsetti spacciate per mezze voci, incapace di vero canto a fior di labbro e di filature ha mancato quelli che per un Enzo Grimaldo tenore lirico leggi sottodimensionato sono i luoghi di sicuro successo. Mi spiego il ruolo protagonistico richiederebbe centri più ampi di quelli del tenore genovese; il tenore lirico nei panni di Enzo Grimaldo risponde all’immagine di eroe mesto e fedele, come lo schernisce Gioconda, e trova la sua compiuta realizzazione quando deve sospirare (aria “Cielo e mar”, incipit concertato atto terzo “Tu sei morta”) o quando può esibire acuti facili e timbrati come all’apostrofe del primo atto “Assassini” o a quella ancor più arroventata “al suo barbaro consorte”, che chiude il secondo atto per patteggiare al duetto con Barnaba ed all’atto quarto, che richiedono una più ampia cantabilità. Eppure con una serie di limiti tecnici e vocali (difficile dire se gli uni precedano gli altri) Francesco Meli ha avuto un notevole successo ed al quarto atto agevolato dalla scrittura e dal genio di Ponchielli è stato credibile e giustamente applaudito. Nulla a che vedere con il pessimo Radames di quest’estate. Quanto all’interprete, premesso che Enzo di personalità ne ha poca in balia fra Gioconda, Laura e minacce di Barnaba le cose funzionano.
Ancora più applaudita e forse vocalmente superiore la protagonista Saioa Hernandez, che non è certo un soprano drammatico dal poderoso ed ampio registro medio grave, richiesto da Ponchielli.
Si tratta, invece, di un soprano lirico spinto le cui “colonne d’Ercole” del repertorio dovrebbero essere Manon Lescaut e Butterfly, applicato a titoli pesanti in virtù della freschezza vocale e della facilità ed espansione vocali in zona medio acuta, senza che il timbro possa definirsi prezioso o particolare ed, anzi, con il difetto che in basso abbondino suoni ingolati e forse non ben sostenuti, che danno al timbro un colore opaco e grigiastro, peculiare dei suoni spintu e forzatamente ampliati, che fu di certe prestazioni di Ghena Dimitrova. E’ nell’ottava acuta che la voce sgorga facile e scorre in teatro e, quindi, l’accorato addio agli amanti fuggitivi verso l’Illirico, come il delirio finale della protagonista che si abbiglia non per il lussurioso Barnaba, ma per la propria morte sono le pagine migliori, che hanno commosso e che hanno avuto autentiche ovazioni dal pubblico. Con queste caratteristiche vocali ( che suggerirebbero di tralasciare Gioconda, Abigaille ed anche Amelia del Ballo perché la morbidezza del suono ed il legato in poco tempo ne risentono) le frasi più impervie, ora sillabate, ora scandite in zona medio grave come l’inizio dello scontro con Laura (e nonostante questo ed i limiti della convocata Laura lo scontro fra le due donne è stata la pagina più applaudita), lo scontro con Enzo alla chiusa del secondo atto, lo scambio del veleno di Laura con il narcotico, la promessa di favori sessuali a Barnaba in riscatto di Enzo al grandioso finale terzo, escono prive di quella ferina novità che fece del personaggio e della vocalità di Gioconda l’archetipo del soprano drammatico post verdiano. Davvero insufficiente Anna Maria Chiuri quale Laura Adorno. Il timbro da soprano lirico (che in Laura sarebbe anche un problema secondario), il dilettantesco primo passaggio di registro, zona della voce dove Laura canta ed inveisce (vedi “l’amo come il fulgor del creato”), acuti malfermi al duetto con Alvise e mancati come il la della chiusa della preghiera del secondo atto sono le gravi carenze di questa antagonista. Le cose non andavano meglio con la Cieca di Agostina Smimmero che mostra un evidente “buco” o “scalino” nella voce tipico delle voci gravi femminili, che credono alla bazzecola che i contralti debbano avere una voce scura, che in realtà è solo forzata e dura in basso e vuota in alto, togliendo la dolcezza vocale ed il legato essenziali per esprimere i sentimenti buoni e pii di cui la Cieca è la ipostasi nel “polpettone” ponchielliano.
Le cose non sono andate bene neppure con le voci gravi maschili perché per insinuare, spiare e tessere la ragna ossia essere un Barnaba plausibile ed aderente alla drammaturgia occorre una tecnica, che consenta di cantare sempre a fior di labbro e una salita agevole agli acuti che, invece, nel signor Catana suonano sempre stonati, fissi e calanti. Fortuna che salvo qualche passo nella sezione conclusiva di “oh monumento” o nel duetto finale a Barnaba non è richiesto di cantare in zona acuta come accade per i baritoni verdiani di cui la spia veneziana è nel contempo erede e precursore. Poca nobiltà e limitata ampiezza in Giacomo Prestia il temibile Alvise Badoero, che nella simmetria vocale dell’opera dovrebbe per ricordare la nobiltà, il distacco e l’autorità (salvo che sulla moglie) avere la voce imponente e scura come nel gruppo femminile compete alla Cieca.
La direzione di Daniele Callegari è stata sicura, poco fantasiosa, ma salvo un paio di incidenti (aria di Alvise ad esempio) ha tenuto bene buca e palcoscenico ed in taluni momenti il suono è stato di qualità e ben controllato come è accaduto alla furlana del primo atto (coreograficamente parlando realizzata in maniera parrocchiale) danza delle ore ed al preludio del quarto atto, che è risultato quello condotto meglio.
Insomma non abbiamo assistito ad un’esecuzione esemplare della Gioconda anche perché oggi mancano in toto o quasi i cantanti idonei alle esigenze vocali ed interpretative e che possano competere con la media classifica di mezzo secolo or sono, ma il pubblico ha applaudito. E con ragione. Ha applaudito prima di tutto Ponchielli, il cui titolo, esemplare misto di nobiltà e pacchianate, regge il teatro magnificamente, gli interpreti nessuno perfetto, ma preparati e disponibili e incapaci di imbrogliare pubblico ed autore. E coi tempi che corrono non è poco.
5 pensieri su “Gioconda a Piacenza ossia dell’utile servizio della provincia”
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Ormai assistendo a certi spettacoli in certi teatri non si capisce più dove inizia e dove finisce la provincia..adesso a prescindere dal posto puoi trovare le schifezze o delle autentiche sorprese..la scala é sempre la scala e così anche altri templi del melodramma ma cosa ce ne facciamo della storia se per ascoltare dobbiamo andare a Piacenza? Ci tengo a dire che non ho assistito allo spettacolo la mia é una riflessione generale
Prendo parola dopo quasi dieci anni di fedele frequentazione del blog innanzitutto per ringraziare. Il Corriere mi ha davvero fatto crescere in consapevolezza e conoscenza…per fortuna la passione c’era già!
Ieri ho assistito allo spettacolo a Reggio Emilia e concordo in pieno con la recensione. La Chiuri a tratti caricaturale (nel duetto con Gioconda sembrava lei quella con le furie dell’amore), Barnaba inascoltabile e in difficoltà persino nella canzone dei naviganti dove non c’era nemmeno un po’ di leggerezza. Meli con utti i limiti che avete sottolineato: certo quando duetta con Barnada
Quando duetta con Barnaba sembra elegante e pieno di intenzioni; inspiegabile la richiesta di bis di Cielo e mar (e inspiegabile che l’abbia concesso!) ma convince al quarto atto. Devo ammettere che lo spettacolo però funziona: so di essere di parte perché amo molto Gioconda ma sono uscito soddisfatto da teatro.
Don Luigi, grazie di tanta assiduità. Speriamo di non deluderti nei prossimi dieci.
Non penso proprio!!