Celebrare Rossini, in occasione del centocinquantesimo anniversario della sua morte è un tema cui il Corriere non può e, forse, non vuole sottrarsi avendolo fatto altre volte. Solo che è intenzione farlo alla maniera della Grisi.
In più occasioni abbiamo constatato e con rammarico come l’interesse e l’attenzione per il genio pesarese da molto tempo siano calati o peggio ancora abbiano assunto pieghe sempre più vicine allo sfruttamento di un prodotto commerciale, comportamento, per le istituzioni a ciò preposte, ben lontano dall’obbligo di continuare a perpetuare l’interesse per il compositore, accrescendo ed ampliando gli orizzonti degli studi e delle proposizioni esecutive.
A parziale scusante dell’ultima doglianza si potrebbe indicare la carenza di cantanti in grado di soddisfare le esigenze del canto e dell’interpretazione rossiniana per tacere dei direttori, come impietosa e fuori dai confini nazionali e lontana dalle polemiche ha dimostrato la recente esecuzione di Semiramide al Met, ma anche gli studi e le ricerche sono languenti nella realizzazione e, prima ancora, prive di idee ed ideali nuovi.
Nessuna speranza di ritrovare un altro Viaggio a Reims, sulla cui confezione per l’esecuzione molto ci sarebbe da indagare ed imparare, o anche dell’invenzione della partitura autografa dell’Aureliano, magari finita cannibalizzata dall’autore medesimo, atteso che metà dell’Aureliano divenne, di li a qualche mese, Elisabetta regina d’Inghilterra, ma un po’ di arie nuova negli interessi dei musicologi e per conseguenza nelle esecuzioni ci vorrebbe proprio.
In primo luogo e ripetiamo opinioni già scritte avere il coraggio di andare a scavare nella produzione di opere serie ante Rossini. Poco sappiamo e nulla eseguiamo del periodo compreso fra il 1780 ed il 1813. Eppure Rossini ammirò Mayr di cui diresse e concertò titoli quando era a Napoli, ammirò anche Cimarosa (di cui gravissime omissione ed ignoranza di Artemisia ed Orazi e Curiazi); si scontrò o meglio subì ostilità ed ostracismo di Nicola Zingarelli, autentica istituzione napoletana della scienza del comporre ed il cui Romeo e Giulietta, rimpolpato del quartetto del rossiniano Falliero, rappresentò un “cavallo di battaglia” di Giuditta Pasta; si ritrovò a maneggiare ed accomodare titoli di Manfroce, Nasolini , Niccolini, Carafa, che erano gli autori di fama e repertorio negli anni immediatamente precedenti la fama di Rossini e che egli stesso spazzò via in poco tempo. E non dimentichiamo che alcuni titoli di Rossini circolarono con inserimenti di numeri di quei maestri.
Ma forse che possiamo pretendere quando uno stimato e valente filologo, si arroga il dritto di corregge Giulia Grisi, che gli parla di Giacomo Tritto (1733-1824) e degli impresti che le opere di Rossini ebbero dai titoli di quest’ultimo, dicendo “Traetta, non Tritto”. Per la cronaca o meglio per quel professore universitario Tommaso Traetta da Bitonto muore nel 1779 e negli anni della formazione di Rossini i suoi titoli era dimenticati da tutti. Qualche volta la lettura di Wikipedia serve, caro professore D….. CENSURA.
Tralascio, poi, il dubbio in ordine ad attualità e spendibilità dell’arroccarsi e trincerarsi dietro il feticcio della prima rappresentazione e della partitura autografa, cui inserire solo le varianti d’autore “autenticate e bollate”. Cenerentola e Turco in Italia circolano con pagine che autografe proprio non sono e che Rossini , per motivi, che neppure occorre indagare, mai pensò di sostituire.
Questa scelta porta nelle ricerche d’archivio ad inseguire solo il materiale predisposto per la prima esecuzione, dimentichi delle vicende delle prime di Tancredi, Semiramide ed ancor più Guglielmo Tell. Ad una tale scelta draconiana, (riconosco assai comoda ed opportuna) consegue dimenticare, sottovalutare o respingere esecuzioni coeve, che pur assente l’autore presentano varianti, aggiunte, tagli , accomodi che se non illuminati per la vicenda compositiva, lo sono circa quella esecutiva di capolavori ed, inoltre, offrono prove inconfutabili circa le modalità esecutive del tempo. Solo per esemplificare: la prassi dei tagli che privilegiava il taglio del numero completo (una delle vittime più famose il duettino “alle più care immagini” di Semiramide oppure uno dei due del Tancredi), le varianti nelle riprese dei da capo, Oggi a sostegno del consolidato principio esecutivo utilizziamo gli interventi di Rossini sulle altrui partiture (Capuleti e Montecchi o Tancredi di Niccolini). Eppure le varianti dei da capo sono lì nelle biblioteche, e sono memorie indistruttibili di come agissero i primi interpreti di un titolo a sei mesi di distanza della prima. Ricordiamo che molte varianti di Rossini, accolte nelle edizioni critiche sono accomodi ed aggiusti per cantanti le cui caratteristiche vocali erano ben differenti dai primi esecutori: esemplari quelle predisposte per Giulia Grisi Desdemona e per Adelina Patti Semiramide.
Riconosco il discorso è arduo perché talvoltasi deve porre un freno o meglio un criterio di discernimento ed un limite all’utilizzo di questi materiali, la cui invenzione può essere casuale, come accaduto a noi del corriere. Ma lo studioso è lo studioso, il melomane il melomane ed il Grisino un soggetto pericoloso che pensi o che frequenti le biblioteche.
E non è finita questa rerum novarum cupiditas che ci fa sorgere desideri e sogni di studi.
Abbiamo per anni assistito a critici e studiosi che celebravano la Rossini renaissance come un avvenimento unico e grandioso. E per chi come me l’ha vissuta è verissima, ma invito a due riflessioni fu rinascita del repertorio perso perché il gusto inclinava all’astrazione ed alla idealità dell’arte rossiniana. Ma l’amore per Rossini e l’interesse per le sue composizioni erano grandi ed evidenti in chi della musica non era solo un esecutore. Non sono battute umoristiche , ma il direttore che supera tutti nel numero di titoli rossiniani studiati e diretti si chiama Tullio Serafin, l’interesse di Gui sia pur limitato all’opera comica rossiniana supera per certo quello di un indiscutibile maestro della renaissance come Abbado e, dulcis in fundo l’autore più presente nel concerto che riaprì la Scala sotto la bacchetta di Toscanini è proprio Rossini. Il direttore verdiano e wagneriano per eccellenza in quel concerto propose autentici monumenti della scienza e della fantasia rossiniana, ovvero Gazza Ladra, Tell e Mosè ed aggiungo – parlando da melomane- come li propose. Poi si potrà obiettare che non diresse mai Semiramide o Assedio, ma le idee sulla importanza di Rossini non si discutono stando a quel programma di concerto.
Ho parlato di renaissance dell’esecuzione e del canto, ma anche qui sento il dovere di ampliare quanto osservato in occasione di altro genetliaco rossiniano ossia che i secoli bui, i secoli del reietto oblio, furono, però, quelli dove molti cantanti in tutto il mondo vantavano una tecnica da Rossini. Preciso che non poteva accadere diversamente perché molti di essi uscivano direttamente o indirettamente dalla scuola di Garcia che è come dire la scuola di canto di Rossini (anche se la sola Marietta Alboni fu allieva di Rossini) ed anche questo deve indurre a dare un significato differente alla Rossini renaissance intesa come riscoperta di titoli, di modalità di esecuzione vocale (direttoriale no di certo), ma no di tecnica perché la tecnica da Rossini sopravvive impavida e certe perchè era la sola tecnica di canto alle esecuzioni di Wagner, Verdi, Catalani, Cilea e Zandonai e preciso non a livello di ipotesi, ma di realtà dei fatti. Certo limitata perché il gusto del tempo Fedora, Adriana, Francesca, Leonora di Calatrava e Gioconda prediligeva, come oggi prediligiamo (spesso cantate da comprimariacce) Semiramide, Zelmira, Amenaide, Tancredi e Falliero. Ma l’ornamentazione di una Russ famoso soprano verdiano è di altissimo livello per tacere di de Angelis o di Eugenia Mantelli.
Non è volere andare controcorrente, ma rappresenta il tentativo di esaminare il fenomeno più rilevante degli ultimi cinquant’anni nella storia del melodramma cercando di precisarne i contorni come il riflettere che fra il Rossini napoletano, indiscusso modello di modernità drammaturgica e compositiva, tanto grande da non poter essere riproposta in tutti i teatri e le altre opere del maestro vi sono i cinque titoli composti per Milano: Pietra di Paragone, Turco in Italia, Aureliano in Palmira, Gazza ladra e Bianca e Falliero dove il Rossini non è napoletano, ma neanche quello italiano se per italiano intendiamo quello veneziano e romano. Non è spirito di campanile, ma un fatto, anzi una serie di fatti indiscutibili e concentrati principalmente in Aureliano in Palmira, che chiedono di essere rilevati e offerti all’attenzione di chi ci legge e non gli importa di libercoli, desiderosi di attualizzare, ad abuso e sfruttamento del teatro di regia, Verdi, trasformando Azucena in una profuga Kossovara e che si apprestano a farlo anche con Rossini, siccome non sanno dire altro.