Per il progetto Opera Giovani della Fenice di Venezia è andata in scena presso il piccolo Teatro Malibran Zenobia regina de’ Palmireni, dramma per musica in tre atti di Tomaso Albinoni. L’opera è stata rappresentata senza intervalli e si è trattato della prima riproposizione in tempi moderni della nuova trascrizione del ms. M1500.A72 della Library of Congress di Washington, l’unico a conservare la partitura seppur in forma compendiata rispetto a quella che doveva essere la forma originale. Meritevole e degna di plauso la scelta di allestire un titolo così raro, lodevole l’impegno degli orchestrali e dei cantanti, tutti giovani, chiamati in causa, purtroppo, però, insoddisfacente l’esito complessivo. Le cause di tale risultato sono da imputare alla sovrintendenza del teatro. Operata una scelta, bisogna avere il coraggio di credere fino in fondo in un progetto e lavorare sodo per assicurarne, seppur con mezzi scarsi, l’esito migliore. Ecco che scegliere orchestrali e cantanti alle prime armi o palesemente impari alle parti e dedicare ben due recite su tre ai giovani delle scuole risulta piuttosto sconcertante per due motivi: innanzi tutto il livello degli esecutori – tutti in difficoltà, seppur in misura differente – non ha reso affatto giustizia a una partitura pressoché sconosciuta che meritava, pertanto, di essere quanto più valorizzata; in secondo luogo mi domando quale assurda logica spinga ad allestire appositamente per un ipotetico futuro pubblico spettacoli così palesemente poco curati e raffazzonati. Anche in questo caso non resta che constatare la poca serietà con cui i teatri onorano i propri doveri culturali.
Venendo all’opera, essa fu rappresentata per la prima volta a Venezia nel Teatro di SS. Giovanni e Paolo nel 1694, la musica è del gentiluomo Tomaso Albinoni, alle prese con la sua prima opera, il libretto (classicheggiante con frequenti punte di kitsch) è, invece, di Antonio Marchi. L’opera ebbe un tale successo da garantire al giovane Albinoni uno sfolgorante inizio di carriera; tale successo, inoltre, contribuì a far sì che il titolo fosse rappresentato anche a distanza di più di vent’anni e che la partitura sia sopravvissuta. Pare che il lavoro sia stato composto per celebrare il doge Francesco Morosini, più volte vittorioso contro i Turchi in Oriente, e deceduto proprio nel 1694. La regia e, in particolar modo, i costumi ispirati al periodo barocco – visivamente d’effetto per la fattura, lo sfarzo e gli ampi pennacchi – hanno voluto rendere evidente il parallelo, seppur solamente supposto, tra la figura di Aureliano e quella del Morosini assicurando una lettura plausibile all’opera. Gli orchestrali, tutti in toga nera alla foggia dei senatori veneziani del diciassettesimo secolo, erano situati sul palco e le scene, estremamente scarne, prevedevano solo alcuni pannelli che, diversamente illuminati, rappresentavo ora le mura di Palmira, ora altre strutture.
La musica, ricca di esotismi ed echi orientaleggianti, si è rivelata estremamente interessante, gradevolissima e ricca di inventiva. Stando alle note di sala – invero troppo sintetiche – di Francesco Erle, l’orchestrazione originaria con la struttura a cinque parti veneziana è stata restituita seguendo gli studi sulla prassi dell’epoca e del giovane Albinoni; la struttura formale, invece, “è stata ricomposta in dispositio terminum, dato che il manoscritto (d’uso) cita solo l’esistenza di ritornelli orchestrali senza delimitarne posizione e ripetizione, o traccia, ad esempio, solo lo scheletro del finale”. Degne di considerazione anche le parti vocali, tendenzialmente centrali e imperniate su un recitar cantando che sfocia spesso in passi vocalizzati più espressivi che funambolici.
Come accennato sopra, la rappresentazione ha lasciato l’amaro in bocca dal momento che gli esecutori, troppo acerbi e inesperti, e in qualche caso palesemente inadatti, non si sono coperti di gloria. Nobile, elegante e di bel timbro Danilo Pastore (Aureliano), ma purtroppo dotato in una voce così piccola da rendere impossibili le sfumature e da soccombere nei momenti più concitati. Vocalmente più robusti, sebbene anch’essi spesso in difficoltà con i passi di agilità Jimin Oh (Zenobia), Dima Bakri (Silvio) e Alfonso Zarmuto (Ormonte). Alterna la prestazione di Naoka Ohbayashi (Filidea), assai sbiaditi gli altri. Francesco Erle ha cercato di tenere le fila dell’opera riuscendoci relativamente bene considerati i cantanti e l’orchestra, ma le sbavature di quest’ultima (penso soprattutto ai fiati) sono state a tratti imbarazzanti, così come i frequenti suoni fissi ed eccessivamente secchi.
Il pubblico ha tributato applausi modesti al termine dello spettacolo, dimostrando di aver gradito il lavoro, ma di non essere stato affatto convinto. In effetti, uscendo da teatro il sentimento a prevalere era l’amarezza, quella di non aver potuto assistere a un’esecuzione più dignitosa di un lavoro interessante e dalle grandi potenzialità.
Zenobia Jimin Oh
Aureliano Danilo Pastore
Ormonte Alfonso Zambuto
Filidea Naoka Ohbayashi
Cleonte Giuseppina Perna
Lidio Federico Fiorio
Silvio Dima Bakri
Liso Luca Scapin
Voce di soldato e messo Francisco Bois
Conductor ⎮ Francesco Erle ; Director ⎮ Francesco Bellotto ; Sets ⎮ Massimo Checchetto ; Costumes ⎮ Carlos Tieppo ;light designer ⎮ Vilmo Furian
Orchestra barocca del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia