Questa sera in Scala ennesima ripresa di Simone. Ne abbiamo perso il conto anche se non siamo ai numeri delle ripetizioni di quello di Abbado, Cappuccilli, Freni e Ghiaurov, che tenne banco nel teatro milanese sino alla dipartita del direttore ed alla consunzione degli interpreti. Inutile fare polemica, tanto ci sarà sempre quel qualcuno che questa sera lo troverà splendido ed in nome di quell’uno si griderà alla assoluta e totale verdianità della riproposta. Nulla di più falso, ma in epoca di fake news potrebbe starci una siffatta sola. Per noi o almeno una cospicua parte di noi il paradigma del Simone è uno solo e viene da lontano per luogo e tempo ossia New York 1935 dove, sotto la guida da Ettore Panizza al Met in una ripresa (la nuova produzione e prima rappresentazione del titolo nel teatrp nord americano era del 1932 e la si doveva al vilipeso Tullio Serfin di cui altrove e malamente si celebra il cinquantesimo della morte) si produssero Tibbett, Pinza, Martinelli e la Rethberg.
Cosa ha questo Simone che nessun altro offre a distanza di oltre ottant’anni. Prima di tutto un cast di autentiche voci verdiane dove per verdiano si intenda voci che sanno alternare dolcezza e dolore a furore e fuoco, tutti secondo la iperbolica visione tipica del nostro ottocento. E allora sentiremo autentiche mezze voci e piani quando Simone supplica l’inflessibile suocero (genovese e di nobilissima prosapia), ritrova la figlia, implora pace e muore in una sorte di esaltazione del buon governo che sono la sigla della nobiltà e dell’aulicità dei padri e dei principi verdiani. Sentiremo lo slancio e lo squillo ( e pure qualche stonata o difficoltà a sostenere con un fiato solo frasi lunghe) del Gabriele Adorno di Giovanni Martinelli, che sostiene nell’aria un tempo di lentezza esasperante, che svela la nobiltà nell’apostrofe “sangue, il sangue d’Adorno ti chiede” e che ci ricorda come il primo Gabriele di questa versione fosse Francesco Tamagno, famoso per l’ardore religioso e lo slancio di Poliuto, sentiremo nel canto i vera scuola italiana la perfetta rappresentazione della genovese nobiltà di Fiesco, padre straziato al “resa al fulgor degli angioli” vendicatore dei torti subiti al “come un fantasima Fiesco t’appare” e indiscusso capo della città quando annuncia ai genovesi la morte del doge e la nomina di Gabriele alla dignità del defunto. Abbiamo scritto altrove che nessuna Amelia Grimaldi del dopo guerra (pure di grande tecnica e stile come la Gencer di voce importante e sontuosa come la Stella) può competere con Elisabeth Rethberg, che consiglkio di ascoltare non con le opinioni di Lauri Volpi o di taluni criticastri, ma con l’attenzione alla irrisoria facilità con cui esegue le frasi finali dell’opera dove le attuali Amelie attuali o falsettano o gridano, mentre il soprano tedesco piange come si competete d una dama di rango con suoni dolci, facili vellutati e che sovrastano le masse corali ed orchestrali, senza che la cantante urli o gridi.
Ma sopra tutti la regia vocale e musicale di Ettore Panizza ad onta di una registrazione fortunosa e precaria. Il suono è quello che è, non potrebbe essere differente, ma dalle prima battute l’orchestra sottolinea quello che accade in scena lo amplifica e lo commenta, ogni differente situazione è descritta con il colore che le compete, il prologo è cupo come argomento ed ora dello stesso chiedono, ma non vi è mai nessuna pesantezza o monotonia, si capisca che a latere dei cantanti l’orchestra canta, e poi il palazzo degli Abati è il grande affresco del dramma storico ed il richiamo alla battaglia nel finale del secondo atto tanto percuotente, quanto agile e mozzafiato come piaceva a Verdi la descrizione della situazione drammatica, i cantanto vengono sempre accompagnati per dare il meglio. Un solo esempio l’entrata di Fiesco; Pinza cantava benissimo per tecnica e gusto, ma non era un basso dalle risorse vocali esemplari ed uniche come Pasero o Kipnis o de Angelis eppure il tempo piuttosto sostenuto ed il controllo assoluto del fiato del basso, che può cantare pianissimo e sfoggiare una mezza voce morbida e dolce, rendono il momento scenico dello strazio del padre e del nobile offeso anche nel proprio rango sociale. Il resto sono tutte fregnacce e falsità.
25 pensieri su “Simone Boccanegra ieri ed oggi”
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e no caro Donzelli. Proprio nel finale le ultimissime frasi di Amelia eseguite dalla Gencer, con quell’effetto di “sforzando”, miracolosamente evocano il pianto nella voce che solo le grandissime interpreti sanno fare. Ineguagliata in questo ruolo! La Retheberg poi, al di là del pregevole materiale vocale, mi è sempre parsa di una frigidità assoluta….
Credo sia la prima volta che la pensiamo diversamente 😁
https://www.youtube.com/watch?v=doXm4dsflbI
Ma qual è l’età media dei 4gatti che gestiscono il sito? [Per noi o almeno una cospicua parte di noi il paradigma del Simone è uno solo e viene da lontano per luogo e tempo ossia New York 1935 dove, sotto la guida da Ettore Panizza al Met in una ripresa (la nuova produzione e prima rappresentazione del titolo nel teatrp nord americano era del 1932 e la si doveva al vilipeso Tullio Serfin di cui altrove e malamente si celebra il cinquantesimo della morte)…]
Il gatto è un animale nobilissimo e anche un po’ satanico e ci piace. Quel Simone, come la Tosca di Claudia Muzio o gli stralci operitici di Vienna fra il 1930 ed il 1938 sono al di là della qualità del suono, di alcune scelte, che possono non piacere (gusto personale) la testimonianza che da sempre si canta, si interpreta e si concerta e che quelli, che nel ruolo di guide culturali si eccitano ad ogni raglio di somaro, a diffusi strombazamenti orchestrali a pornografiche messe in scena sono quanto meno ignoranti e poco informati. Poi, caro Giulio, indaga pure sulla mia data di nascita. Non ho sentito dal vivo quel Simone, ho, però, ascoltato quel minimo che mi consente di non essere sordo. Ovvio che tu la pensi diversamente
Serafin vilipeso? La invito a rileggersi quello che di Serafin pensava Rodolfo Celletti.O anche lui era un criticastro???
so benissimo che cosa scrisse Celletti di Serafin e se vuole anche di Gui. Celletti non era un criticastro credeva che il melodramma romantica non andasse eseguito con clangori da Ponchielli. E aggiungo aveva ragione con riferimento ad epoca in cui scrisse ed a prospettive che in quel momento si aprivamo e le cui degenerazioni (Norma di Mariella Devia non erano ancora comparse) ed inoltre preciso che Serafin disponeva di voci importanti e sontuose (è paradossale dirlo la sua Norma più leggera fu la Callas) e il Padreterno ha fatto grazia per motivi anagrafici a Rodolfo Celletti di sentire marcette e spernacchiamenti nel Rossini tragico piuttosto che in Bellini e Donizetti. Che cosa penserebbe oggi Celletti di Serafin non possiamo immaginarlo, ma la invito a rileggere la recensione dell’Ernani della Rai (Penno, Mancini, Previtali, se non sbaglio) dove il critico romano parla proprio di ripensamento alla luce di quanto stava accadendo.Allora era l’ELvira di Mirella Freni, assai riprovata in Scala. Oggi non dimentichiamolo i soprani incaricati di cantare ELvira hanno, nella più pietosa delle considerazioni voce ed accento di Mimì
Secondo me,ma posso sbagliare ,ne penserebbe comunque male.Secondo Celletti Serafin era al più un buon accompagnatore,non credo che oggi cambierebbe idea perchè ci sono altri direttori peggiori,un madiocre resta sempre un mediocre
Ho riletto la seconda recensione dell’Ernnai che però riguarda <Previtalii.Io ,francamente giudizi di Celletti su Serafin che non fossero sostnzialmente negativi non ne ho mai letti;ma magari mi sbaglio.
<Fra l'altro ho avuto la fortuna di sentire personalmente Celletti a Martina Franca e dette ,specie in priveto,un giudizio pessimo su Serafin,che considerava uno dei più grandi bluff della storia del teatro operistico, definendolo uno dei tanti imitatori di Toscenini che ne avevano i difetti na non gli ,enormi,pregi
Grande esecuzione, senza dubbio.
Però se dovessi scegliere un direttore per Simon Boccanegra, personalmente, nominerei senza ombra di dubbio Mitropoulos, ad onta di un cast non memorabile, almeno per quanto riguarda il doge e Fiesco.
La coda dell’aria di Fiesco, tutta la scena del Palazzo degli Abati e tutta la scena finale sono, a mio avviso, semplicemente inarrivabili.
Mi sembra che non via siano dubbi sul fatto che Celletti considerasse il maestro Serafin direttore senza qualità. Giudizio a mio parere ingeneroso e sballato ( non l’unico dei suoi del resto ad esserlo: nessuno è perfetto, nemmeno Celletti ). Consentitemi inoltre, tra tante dotte disquisizioni, una parentesi: perché adottare l’orrendo “in Scala” in luogo di “alla Scala”? Dovremmo forse dire di aver visto qualcosa in Metropolitan e in Covent Gatden, magari dopo qualche capatina in Regio e in San Carlo?
Celletti di cantonate ne prese parecchie. Umanamente, come tutti. Ognuno di noi ha le sue idiosincrasie. Serafin – aldilà di quanto ingenerosamente scrisse Celletti (che invece apprezzò altri direttori assai più mediocri ed insignificanti del Tullio) – fu interprete importante e intellettualmente aperto, anche alla musica allora contemporanea o quasi. Detto questo io sono di quelli che non ritiene il Simone di Panizza un paradigma, anzi, lo trovo assai manchevole proprio per la lettura direttoriale, a mio giudizio insufficiente. Ma non è questo, ovviamente, il punto: il punto è – e questo è il succo del discorso di Donzelli – che oggi il teatro che si propone come massimo in Italia ci propina ancora il Simone di Leo Nucci con licenza di gigionate e pessimo gusto, come da anni ci ha abituato il baritono. Certamente non vi sarà l’occasione di trissare – come in una sagra della salsiccia – “vendetta tremenda vendetta”, così come, almeno si spera, di aggiungere acuti ad minchiam, risatazze ed altre amenità. Resta l’inutilità di una tale operazione che unisce una messinscena grottesca e sbagliata, un protagonista inaccettabile, un cast di contorno improbabile e la bacchetta – ormai svogliata – di un ottimo direttore ormai assurto al rango di intoccabile, ma che, ultimamente, non mi è parso estraneo a molte perplessità.
Infatti, come Leo Nucci si potuto diventare “l’eccellente baritono verdiano” resta per me un mistero ben più difficile da discernere rispetto a quello di Fatima….
Sul post di Duprez posso convenire ,perchè non cerca improbebili arrampicate sugli specchi circa il giudizio che Celletti avrebbe dato sul maestro Serafin,ma prende atto su quello,molto negetivo che il critico romano aveva dato e scritto decine di volte.
Salve, sono nuovo, e il mio italiano non è perfetto….
Mi è piaciuto molto l´articolo. Amo profondamente il Simone e la versione di Panizza è una meraviglia….Martinelli è strepitoso. Credo Milnes avvia detto che il Simone è una gran e lunga aria….e io la sento cosí,,,,,un continuo. Ricordo anche l´Amelia di Victoria de los Angeles con emozione.
Un saluto a tutti
Su Cavalleria rusticana: “Trovo l’edizione di Serafin nitida e varia. E’ notevole in particolare l’Introduzione così come lo sono i cori” Celletti,Iil Teatro d’opera in disco. pag. 385
Su Aida: “C’é un Serafin abbastanza in evidenza. …Qui udiamo un preludio, una scena della consacrazione, e una scena del Giudizio ben dosati e scorrevoli, come pure accompagnamenti impostati con sicurezza e competenza” Idem pag 824
Vi sarebbero altri esempio di deciso apprezzamento. Evidentemente Celletti era allergico al Serafin direttore “protoromantico”
Forza del destino: Serafin tradisce sotto un’apparente autorevolezza, scarso approfondimento e trasandatezza.
Aida, dopo il giudizio riportato, Celletti aggiunge: udiamo ballabili privi di brio, un finale II piuttosto convenzionale, un’introduzione all’atto del Nilo fondamentalmente insapore, ma l’insieme, sia pure con una certa genericità di lettura tiene (non mi sembra un giudizio poi così positivo).
Ballo in maschera: edizione che rispecchia il cattivo modo di intedere Verdi tipico dell’epoca con un direttore dotato di grande esperienza teatrale e molto sicuro, ma non altrettanto accurato.
Infine Otello: direzione che rende il senso generale delle diverse situazioni sceniche con una approssimazione ora sufficiente ora abbasatanza buona e con un gioco agogico dinamico esente da contrattempi e da sbavature facilemente percepibili, ma talvolta calcolato a spanne.
Io francamente questi giudizi pienamente positivi di Celletti su Searfin non li vedo, per lui era, in sostanza, un buon mestierante, me niente di più.
Del resto questa era una cosa abbastanza notoria e il giudizio negativo di celletti coinvolgeva tutti i direttori post toscaniniani.
Chissa’ cosa avrebbe scritto su Oren o Gatti….
Preciso: negativo o quantomeno di mediocrità
Alcune riflessioni su Serafin.
1. Karajan aveva una notevole ammirazione per Serafin, che considerava “un grande direttore e un valentissimo concertatore di cantanti” (Osborne, Conversazioni con Herbert Von Karajan, Parma, 1990, 98). Ciò mi pare basti e avanzi.
2. Il grande Celletti aveva, come tutti, le sue fissazioni, le sue preferenze e le sue idiosincrasie, anche se non mi pare fossero, nel complesso, balzane come quelle di altri più recenti scrittori di cose musicali ed operistiche nella fattispecie concreta.
3. A mio parere, dove la direzione di Serafin è insuperabile ed insuperata è in Norma. I tempi sono quelli giusti, né troppo lenti, né troppo veloci, come si è sentito in altre occasioni. I tagli, poi, sono nella media dei tempi, minori rispetto ad altre esecuzioni, anche più recenti, di cui c’è memoria audio.
4. Sempre a proposito di tagli mi pare di aver letto o sentito che, incidendo I Puritani con Callas, Di Stefano Panerai e Rossi Lemeni, Serafin avesse riaperto dei tagli usualmente praticati, sì che Di Stefano, che non conosceva le battute, dovette essere sostituito da Mercuriali, che cantava la parte di Bruno.
5. Anche il Mosé, nell’edizione discografia con Rossi Lemeni, è meno tagliato di altre edizioni, anche se, a mio parere, qui Serafin non mi convince al 100% (così come non mi convince al 100% nella Turandot con Callas, Schwarzkopf e Fernandi), reputando io superiore l’esecuzione RAI con Sawallisch sul podio, soprattutto per la straordinaria direzione del Maestro bavarese, ma anche per il Mosé di Ghiaurov, dato che Rossi Lemeni, ogni volta che sento l’incisione, mi dà l’impressione di non essere palesemente in forma, ma piuttosto in chiaro affanno.
6. D’altro canto Serafin è indiscutibilmente meritorio per quanto attiene Rossini, in quanto, con Gui, l’autentico pioniere della Rossini renaissance. Non dimentichiamo che Serafin è stato il primo a tirar fuori dall’oblio molte opere serie del Pesarese, a partire dalla Semiramide fiorentina con Gatti, Stignani, Pasero e Tagliavini; e le incisioni della Stignani e Pasero danno un’idea di come interpretavano le loro parti, cantandole splendidamente, come oggi, pur dopo che si è appreso il modo corretto di cantare Rossini, rarissimamente si sente. Sempre a Firenze, nel famoso Maggio rossiniano del 1952 (dopo che Santini aveva resuscitato L’assedio di Corinto con la Tebaldi nel 1948), Serafin dirigeva, oltre all’ “usuale” Gugliemo Tell, il Tancredi e, soprattutto, la Armida con la Callas e la spettacolare messa in scena di Alberto Savinio.
All’ascolto della fortunosa registrazione dell’opera, si vede che vi erano, fra gli uomini, cantanti che non potevano essere definiti provetti nel corretto stile rossiniano (ma che potenza aveva FiIippeschi e che bella voce il giovane Raimondi) e che vi sono tagli su tagli (anche e soprattutto per soccorrere cantanti in possibile affanno), ma c’era la Callas, che, forse in parte per genio suo, forse per l’aiuto del Maestro, cantava una Armida senza possibili eguali, capendo tutto del personaggio. Insomma, pur con tagli ed aggiustamenti, perla prima volta si poteva conoscere un Rossini serio che non fosse Mosé o Tell.
7. Vi è stata poi la riesumazione de La donna del lago con la Carteri e Valletti, il cui ascolto, però, mi fa rabbrividire – prescindendo dai tagli per aiutare i cantanti nell’affrontare l’ostica partitura o dall’ “O fiamma soave” praticamente dimezzato per facilitare Valletti – quando, alla fine dell’opera, il finale di Rossini è sostituito da un osceno, orrendo, inascoltabile finale composto ex novo dal revisore della partitura sul tema di “O mattutini albori”, con ciò dimostrando di non aver capito nulla della poetica rossiniana e della forma-struttura dell’opera seria.
8. Mi pare, infine, che anche la ripresa dell’Otello all’Opera di Roma negli anni ’60 con la Zeani e le scene di De Chirico venisse da un’idea di Serafin che, non per niente, in quegli anni, era consulente artistico del teatro capitolino.
9. Giustamente Duprez ricorda l’attenzione del Maestro di Caverzere per l’opera contemporanea. A prescindere dalla direzione di alcune opera in prima assoluta (Emperor Jones di Gruenberg, Vivì di Mannino), Serafin ha fatto conoscere in Italia alcune partiture importantissime del ‘900 europeo, dirigendo, in particolare, le prime esecuzioni italiane de Il cavaliere della rosa, Wozzeck e Peter Grimes, la prima e l’ultima a pochi mesi di distanza dalle rispettive prime esecuzioni assolute di Dresda e Londra. Né è da dimenticare che aveva un repertorio così ampio che andava da Monteverdi ai contemporanei.
10. Quanto ai tagli, c’erano, ma non era il solo a farli, se è vero che, se non erro, la sua Lucia e quella di Karajan, entrambe con la Callas, presentano le stesse omissioni di brani musicali. Viceversa altre partiture erano eseguite integralmente, o con tagli minimi. L’Otello registrato per la RAI con Del Monaco e quello inciso con Vickers sono integrali, mentre l’incisione di Karajan sempre con Vickers presenta dei tagli, particolarmente nel terzo atto, di cui non ho mai capito la ragione. La traviata era tagliata pure da Toscanini, e pure De Sabata mi pare tagliuzzasse il Tristano, secondo le tradizioni italiane, per ricondurlo a durate accettabili per gli spettatori scaligeri. Peraltro su you tube si vedono recenti esecuzioni afflitte da tagli inqualificabili od altre in cui la logica del taglio sfugge o, se non sfugge, appare balzana.
In sostanza, parafrasando un detto di Celletti su Toscanini, “tant pis pour M. Celletti”.
Concordo su tutto: Serafin era uomo del suo tempo e i tagli – a quel tempo – erano la normalità. Non concordo sulle ragioni che presiedevano tali omissioni (che non erano pratiche, ma frutto di una precisa visione ideologica), ma ogni esecuzione va calata nel contesto storico d’appartenenza. Anche a Bayreuth si tagliava: erano i tempi. Oggi tagliare è ingiustificabile, ma allora c’erano altre esigenze (tra cui far rivivere un repertorio praticamente dimenticato). Anche Mendelssohn taglio e riorchestrò la Passione secondo Matteo di Bach quando la ripropose dopo l’oblio in cui era caduta: era il costo da pagare, ma grazie a quella riesumazione oggi la possiamo ascoltare integralmente. Lo stesso vale per Berlioz con Gluck o per Rimskij-Korsakov con Musorgskij.
Circa i tagli di Karajan nell’Otello con Vickers: effettivamente il concertato del III atto è molto accorciato, questo per una precisa lettura di Karajan, che amplia il taglio fatto dallo stesso Verdi in occasione della ripresa parigina dell’opera. Verdi – e Karajan – ritenevano che il concertato rallentasse l’azione e divagasse e così senza pietà lo accorciano. In più Verdi voleva inserire quella sottospecie di musica che sono i ballabili (una delle robe più schifose composte dall’autore) e non poteva allungare troppo l’azione. Alcuni direttori ancora oggi eseguono la versione rivista del III atto (grazie a dio senza ballabili) in omaggio all’ultima pagina scritta da Verdi: per me è una fesseria. Quel concertato è tra le cose più alte scritte da Verdi e una manciata di minuti in più non è certo un problema per l’azione.
Prima che me ne dimentichi, sulla pagina di Wikipedia in francese c’è questo elenco delle opere dirette da Serafin in prima assoluta, anche se vi manca la Vivì di Mannino:
– Risurrezione (1904) et Cyrano de Bergerac (1936) de Franco Alfano,
– Empereur Jones (1933) de Louis Gruenberg,
– Merry Mount (1934) de Howard Hanson,
– Ecuba (1941), Vergilli Aeneis version scénique (1958) de Gian Grancesco Malipiero,
– L’Amor dei tre re (1913) d’Italo Montemezzi,
– Orsèolo (1935) d’Ildebrando Pizzetti,
– The king’s Henchman et Peter Ibbetson de Deems Taglor,
Dimenticavo. Serafin aveva buon naso non solo per quanto attiene ai cantanti, ma anche ai registi, dato che nel 1947 chiamava a mettere in scena alla Scala La traviata, da eseguirsi sotto la sua bacchetta, con la Carosio e Gobbi, un assai promettente giovane regista di prosa di nome Giorgio Strehler, che così firmava la sua prima regia lirica e che poi alla Scala sarebbe ritornato molte altre volte….e qui ritorniamo al Simone abbadiano con tutto quel che segue….