Quello della Lucia di Lammermoor di Joan Sutherland è un altro dei capidopera del melodramma del novecento. Riferimento stilistico e modello contemporaneo per una nutrita scia di più o meno brave cantanti che hanno costantemente fatto riferimento alla diva australiana nell’approcciare il titolo donizettiano. La cosiddetta chiave “belcantistica” per Lucia è stata l’etichetta più frequentemente utilizzata nel tempo corrente per la Lucia di Joan Sutherland.
Lucia di Lammermoor lanciò la Sutherland nel firmamento delle superstar internazionali, divenendo simbolo della sua prodigiosa carriera. Alle magiche serate del 1959 al Covent Garden seguirono, infatti, il debutto italiano a Palermo, quello francese all’Operà di Parigi, quindi alla Scala ( 30 chiamate al proscenio la sera della prima…) e al Metropolitan nell’arco di tempo di due anni circa. Poi i palcoscenici di tutto il mondo.Il soprano australiano era una cantante di carriera inglese, da alcuni anni stanziale al Covent Garden, ove si era esibita in ruoli disparati, sia secondari che primari, per lo più da soprano spinto da repertorio tedesco; ruoli poi quasi tutti abbandonati una volta diventata diva quale massimo soprano d’agilità del repertorio belcantistico. Della sua trasformazione vocale compiuta negli anni ’55 – ’59 la Sutherland racconta ben poco nei suoi diari, o meglio, narra in pochissime righe sparse ciò che portò la sua voce verso quella astratta e magica sonorità documentata dall’audio delle recite londinesi. “Richard was forever wanting more legato, more expression, rounder tone, clearer diction, greater intensity, until I reached the end of my patience and would say “I can’t”. This was rather like a red rag to a bull with either Ric or Norman Ayrton, when I worked with one or other of them, and I would be bullied ( I thought ) to try again” Rigoletto e poi Alcina, quindi Schuspieldirektor, poi Mitridate Eupatore ed Emilia di Liverpool, Carmen, Dialogues des Carmelites quindi Otello furono le tappe significative del repertorio della Sutherland sino a quando, nel 1958, David Webster annunciò il progetto di produrre per lei il titolo donizettiano, assente dal Covent Garden dal 1925. La metamorfosi vocale si era compiuta con Gilda, grazie ai 78 giri di Amelita Galli Curci. Racconta la diva : “ Richard had worked a great deal of Gilda with me. He adored Galli Curci’s singing “Caro Nome “ and we listened over and over again to her recordings. I’m afraid I began to thin the timbre of my voice in an effort to sound more youthful and like Galli Curci. This was a most dangerous and foolish thing to do. I have never had a voice vaguely like hers and it was the style and phrasing that we admired, also her sincerity. But the voice acquired a certain overlay of that charming singer’s quality wich I had to work very hard to eradicate. Richard and I agree it is very wrong for young singers to adopt a vocal timbre because they hear another singer on record using-they must sing with their own voice and develop their own technique and vocal attribution..” La cantante cantò superbamente e la critica scrisse, riconoscendone la trasformazione. E da Webster arrivò allora la grande occasione, sotto la guida di Tullio Serafin e la regia del giovane Zeffirelli. Le prove private con Serafin a Venezia e la nota circa gli abbellimenti e la grande cadenza scritta da Bonynge sono i soli cenni lasciati dalla Sutherland circa la preparazione di quella attesa Lucia, che tornava in Inghilterra dopo l’unica apparizione della Dal Monte nel 1925, a valle di una tradizione prestigiosa, che risaliva attraverso la Tetrazzini e la Melba, alla Sembrich e soprattutto alla Patti: 23 stagioni consecutive a partire dal 1860. Dopo tanto tempo Lucia tornava ad avere la voce chiara, brillante, ampia e penetrante come i dischi antichi, inclusa la stessa Amelita Galli Curci, documentano, con buona pace di tutti i moderni detrattori di quelle cantanti pioneristicamente giunte a noi grazie ai cilindri di cera e dai microsolchi. Quel cantare sempre uguale e costante, le note tutte uguali, i registri perfettamente fusi, il legato, le agilità fluide e la dolcezza emanata da quei documenti è passato, per il tramite del marito, nella cantante dalla voce potente ma ancora non del tutto sfogata: “ Richard tricked me into singing up to a high E in scales, having started them on a higher note than was usual during our vocalises “ .
L’audio documenta come il ruolo fosse già perfetto al debutto, perfettamente pensato e risolto in ogni passaggio, gli accenti giusti sulla parola, la dizione corretta, come le aveva raccomandato Serafin. Impressionante poi constatare lo standard esecutivo altissimo mantenuto sino alle ultime apparizioni degli anni ottanta, ove sentiamo qualcosa di rappezzato o raggiustato, che non ha più la freschezza o la perfezione delle prove degli anni ’60 -’70.
Con Joan Sutherland Lucia ritornò ai modelli sopranili anteriori all’estetica verista, che giocava con il colore della voce per conferire una dimensione infantile oppure tragica ai personaggi. Quello che Maria Callas aveva iniziato con la sua interpretazione, relegando i manierismi a qualche occasionale passaggio in cui sbiancava il suono, prese una forma completa con la Sutherland. La tradizione delle Hempel, delle Ivoguenn, delle Galli Curci venne finalmente ripristinata: il cantare con voce piena e sonora, purissima e quasi trasparente, ampia e penetrante. Al lato drammatico e più tragico che aveva impressionato nella Callas, la Sutherland sostituì una interpretazione più contenuta ma forse anche più rispettosa del personaggio ( che comunque non è Norma o Bolena ), dolce e malinconica, del tutto strumentale. Lo stile belcantista, documentato nei 78 giri a cui lei stessa accenna nei diari, ritornò così al novecento anche in una perfezione esecutiva della componente acrobatica da tempo dimenticata. La coloratura non era più solo il picchettato: trilli, gruppetti, quartine, terzine, ribattiture etc , una straordinaria varietà di abbellimenti tornò ad arricchire l’esecuzione, rendendola spettacolare ed elettrizzante. Rispetto a quella Lucia del ’59 e ad altre dei primissimi anni di carriera, la Lucia della Sutherland si fece forse più generica e meno articolata nella dizione e nell’accento con l’andare degli anni, ma rimase sempre connotata dalla purezza e dall’ astrazione del suono, ampio e penetrante, e da un legato straordinario ( insuperato da tutte quelle che venirono poi ). Per questo non smise mai di incantare i teatri di tutto il mondo.
Joan Sutherland è stata il riferimento delle Lucie degli ultimi 30 anni, senza trovare in alcun caso alcuna epigona in grado di affiancarla o emularla pienamente.
Divina la Sutherland di quest’anni! Questo canto proprio inumano per limpidezza ed, ecco, come dite, transparenza (anche con una dizione corretta) non l’ avrà piu dopo, sfortunatamente… La sogno in tanti ruoli settecentenschi (l’Alcina di 59 con Wunderlich è modello di meraviglia, quindi di canto barocco, non parlo del Mitridate Eupatore, ossia come distruggere le stupidre teorie “baroqueuses”)e anche del primo Rossini devo dire… Infatti, quando l’ascolto nei stupendi brani dell’Emilia, di sapore rossiniano nel canto d’agilità, me la figuro benissimo anche nei panni d’Amenaide per esempio. Il fantasma, il fantasma…
una famosissima Amenaide, per certi versi la più aderente a Rossini, una volta mi ha detto “per fortuna che non l’ha cantata la Sutherland da giovane”
Sottoscrivo
Vidi Dame Joan per la prima volta nel ’64 proprio nella ‘Lucia’. Che dire? Un tronco di suono. Oggi c’è solo da ridere in confronto.