Ad ascoltare gli argomenti con cui il regista Barberio Corsetti ha, via Rai, illustrato quella che lui definisce la“dimensione infantile” di Sonnambula a giustificare il fatto che i protagonisti vengono collocati in una scena dagli elementi giganteschi a muovere pupazzi, oppure la sua sottolineatura dell’elemento “inquietante”, ossia il sonnambulismo della protagonista o la spiegazione del fatto che i cantanti vengano portati tra il pubblico perchè questo sarebbe poi il coro che commenta l’azione ed altre amenità simili, viene da sorridere. Anche se forse ci sarebbe da piangere per la desolazione. Spiazzanti la sua ingenuità e la sua sprovvedutezza nell’approccio al capolavoro belliniano, la cui distanza intellettuale da ciò che Sonnambula costituisce sembra incolmabile. Siamo ormai giunti ai rantoli della lirica, malata di false interpretazioni, sistemi di valori arbitrari forzatamente cacciati sul palco a snaturare ciò che non avrebbe bisogno di alcuna “esegesi” moderna, di alcuna interpretazioni arbitraria o rilettura “svecchiante” ma solo di essere riconosciuto, conosciuto, rispettato e ricollocato nel suo esatto sistema di significati e relazioni. Il gioiello perfetto di Bellini, pensato a tre con i suoi amatissimi cantanti Pasta e Rubini ( quel primo atto consegnato a Ricordi senza le cavatine di sortita dei protagonisti per perfezionarle con i cantanti la dice tutta sulla genesi di questi must del recitar cantando.. ), l’incanto del capolavoro “pastorale” ove il coro incornicia la melodia semplice e perfetta, ornata da “trilli volate e gorgheggi” eseguita con “che verità, con che espressione e con qual giusta misura…”come testimoniano i contemporanei, non può essere colto con i parametri intellettuali dei Barberio Corsetti ( che vidi a suo tempo nello streaming da Bari ) e direi nemmeno da quelli di direttori ancora troppo poco addentro all’opera come la Scapucci, con buona pace della sua attivita di ripassatrice di spartiti. Lo dimostrano i fatti, ossia gli esiti professionali, e non solo le parole spese nelle interviste, che ormai sarebbe meglio cassare perché più che giovare mettono solo a fuoco il panorama di vuoto intellettuale in cui la lirica galleggia.
Pareva una gara tra “due angioli che hanno entusiasmato quasi alla follia l’intiero pubblico” scrissero dopo la prima del Carcano. C’è tutto un mondo di significati ed un pensiero modernissimo sulla natura del melodramma nella Sonnambula sfuggito alla coppia che ha guidato questa edizione romana. L’andare oltre Rossini senza fare a meno di Rossini, tornare alla grande lezione degli antichi come Bellini aveva imparato, non senza imposizioni, da Zingarelli a Napoli, pur cercando una musica moderna, quella della “melodia lunga”, solo moderatamente ( rispetto a Rossini ) fiorita ma sempre espressiva ed astratta al tempo stesso, con un genere, quello di mezzo carattere, che aveva un significato ben preciso per chi avesse assistito alla stagione rossiniana, con i suoi stravolgimenti geniali e le dispute rissose che dal 1822 in poi avevano attraversato il mondo musicale di mezza Europa. E i contemporanei colsero subito il senso di questa Sonnambula, dove “Bellini posto nel difficile e inusitato arringo di vestire con musiche note una scena pastorale in cui però tutta l’elevatezza del sentire e le più sublimi passioni investono e sublimano i suoi personaggi, dovette attenersi ad uno stile tutt’affatto lontano da quello che nelle eroiche rappresentazioni o nelle tragiche o nelle comiche o nelle semiserie vuol essere impiegato…..Questa era l’alta meta a conseguirsi…Ed egli vi riescì si bene…e in gran parte questo suo componimento offre la semplicità adorna ed abbellita dalle moderne grazie…” . Le “moderne grazie” erano il nuovo canto moderno, quello ricco di pathos, di malinconia, di espressione perfezionata dai melismi che ascendeva direttamente ai castrati, e non a caso alcuni ricordarono proprio il Marchesi per questa coppia di artisti impegnati in Sonnambula. Il sonnambulismo di Amina nulla ha di inquietante, è troppo stilizzato ed astratto per esserlo: siamo in un tipo di teatro ancora completamente sublimato che si muove rielaborando la tradizione per produrre il nuovo e che metterà in scena l’alterazione mentale, fin anco alla pazzia, tra i suoi topoi, ma come mero artificio teatrale, momento per ricercare l’espressione e l’emozione del pubblico. E’ la cantante dell’antica Nina di Paisiello che Bellini e Romani vanno a stimolare con il loro soggetto, l’esecutrice sublime degli smarrimenti e del dolore di Nina e che ne aveva rinverdito i fasti antichi; la stessa per la quale Rossini scrisse la Corinna del Viaggio a Reims. E il protagonista è il Rubini che dava voce alla malinconia con la stessa astrazione di un mezzosoprano come Romeo, capace di piangere e commuovere il pubblico fino alle lacrime stando con la voce alle vertiginose altezze che Bellini gli aveva già predisposto nel Pirata ed ora in questa scrittura infernale di Elvino. Evocava il travestì di un tempo ancora recente, ma era già tenore, l’amoroso maschile, come modernamente si gradiva. Ignorato e ablato tutto ciò dalla memoria di chi allestisce e dirige, oppure conosciuto come mera nozione erudita, prova di sapere da spendere per promuoversi, come accade oggi, dove si parla e si parla mentre nulla prende senso, nel fraintendimento generale, nella confusione generata dalle parole svuotate di significato, per cui un uomo che fa la parodia di una gallina equivarrebbe a un castrato, una voce femminile spaccata in due tronchi, uno grave sgraziato ed uno acuto strillato, sarebbe una filologica voce da opera barocca, un tenore con la voce sbiancata sarebbe un tenore di grazia etc etc, ecco che vediamo e sentiamo quello che ci tocca vedere e sentire a teatro. Con il suggello di garanzia di qualche biro Bic della stampa amica che ci spaccia per talenti persone che talenti non sono.
Non voglio essere troppo dura con la signora Scappucci, che ho udito ieri per la prima volta eche dunque ha la statistica dalla sua. Posso dire però che questa sua Sonnambula è stata diretta male, molto male, laddove dell’arcadia, del clima pastorale, della perfetta levità e lirismo dei cori, del pathos della nenia belliniana, commovente fino allo struggimento, ha fatto una bella piazza pulita. Bim bum bam e va là che vai bene, è stata la sua cifra. Accompagnamenti che non apportavano nulla a canto, anche con scelte di tempi discutibili, ora troppo lente ora troppo veloci, meccanicismi e fragori di piatti fuori luogo ( per tutti , il finale di cabaletta del povero Rodolfo…) si sono alternate a cori stanchi e pesantemente cadenzati. Sarà anche uno dei nostri migliori talenti, ma ieri sera con la Sonnambula ha dato una prova degna di riprovazioni ben più grandi di quelle che ho sentito per radio. Peccato, perché il cast meritava una bacchetta più adeguata dato che delle cose buone sul palco c’erano.
Jessica Pratt ha cantato semplicemente benissimo, come nessuna di certe sue più blasonate colleghe può cantare oggi. Non è Joan Sutherland, e questo paragone continuo andrebbe ormai tolto di mezzo perché fa ridere e non calza alla cantante, ma la sua Sonnambula ed i suoi Puritani sono esecuzioni di livello alto, stupendi sin dal debutto in provincia alcuni anni fa. Tutto funziona, tutto gira e suona dominato, conosciuto ed esatto. Professionale, per usare un aggettivo che non riusciamo più ad applicare alla lirica corrente. Se proprio dovessi sottolineare qualcosa, un maggior abbandono alla malinconia, alla nostalgia ( in questo alla sua augusta conterranea la Pratt non assomiglia per nulla ) una certa dose di languore in passi come “Ah vorrei trovar parole” e magari un minor ricorso ai sopracuti nell’”Ah non giunge” in favore di altre ornamentazioni ( che lei possiede tutte ) e di maggiore fluidità perfezionerebbero questo suo capo d’opera, che, a mio avviso , ha nel ”Ah non credea mirati” il punto più alto ed emozionante della serata. Peccato la mancata esecuzione dei numerosi trilli all’unisono scritti nel duo Amina Elvino “Ah vorrei trovar parole“ ( ”…per noi sarà, per noi sarà etc”), forse una forma disdicevole di “solidarietà” col tenore: i soprani dal trillo facile come la Pratt li hanno sempre eseguiti malgrado l’incapacità dei tenori, a cominciare dalla Sutherland.
Juan F Gatell ora fa bene, ora si arrabatta, a seconda della scrittura, con una vocina bianca, eunucoide e dall’acuto mal sicuro in una parte troppo grande per le sue possibilità. Una esecuzione complessivamente garbata, pur nei limiti di un cantante messo alle corde dalla tessitura troppo alta per lui e dalla voce piccola. Suona come gli Elvini di tanto tempo fa, effeminati e bianchicci, e s’impicca maldestramente ora nel “Tutto ah tutto in quest’istante”, o nel “Lisa mendace anch’essa” ( ma quanto assomiglia il brano al quartetto dell’entrata di Semiramide…..!! ). Ha fatto la figura della spalla del soprano più che del protagonista.
Riccardo Zanellato mi è parso cantare assai meglio di altre volte, anche con attenzione al legato. Certo, l’aria del conte a fior di labbro non si usa più da circa 100 anni e sarebbe pretendere troppo. E’ bastato il fatto che non l’abbia cantata a squarciagola e resta il rammarico per una cabaletta accompagnata con grande fragore della tremenda Scappucci.
Nel complesso un altro Pratt show, certo più equilibrato di altri in passato, che avrebbe meritato una bacchetta meno maldestra ed anche un regista meno naiv e più adeguato all’idillio belliniano, cosa che avrebbe risparmiato la pioggia finale di fischi al regista. Il sovrintendente Fuortes, diciamolo finalmente, è abile organizzatore e riorganizzatore del teatro, ma la direzione artistica non pare esattamente il suo…fuortes!!!
Complimenti per l’articolo..purtroppo é un capolavoro difficile da interpretare proprio per la difficoltà che il genere impone oltre ovviamente tecnico . La Sonnambula é sublime nella sua armoniosa gentilezza un qualcosa che é difficile da spiegare a parole, che però secondo me é stato ben espresso nell’articolo. Oltretutto é commovente pensare a Bellini mentre metteva in musica Ah non credea mirati, versi poi scolpiti sulla sua tomba se non erro..
I registi ormai si divertono a farsi fischiare alla fine…
Essere fischiati per esistere?
Ormai sono diventati anche comodi paravento per realizzazioni musicali più che modeste e che, invece, passano indisturbate concentrando le contestazioni sulla sola parte visiva. Non per rimettere il coltello nella piaga, tuttavia questo è un’altra prova dell’indifferenza e impreparazione del pubblico: non riuscendo più a capire quando un cantante stona o quando un’orchestra non va a tempo si concentra solo su ciò che vede. Il problema è che molti spettacoli accolti da cruscante riprovazione per il responsabile dell’allestimento sono stati ben peggiori dal punto di vista musicale (per fare qualche esempio recente: Otello di Rossini e Anna Bolena alla Scala; Damnation de Faust a Roma). Il pubblico, assolto il compito di fischiare il regista – e reggendo il giuoco a certa parte di critica che con soddisfatta indignazione additerà la gretta ignoranza dei “soliti” contestatori – salva, de facto, l’insalvabile, ossia la performance musicale.
Sono completamente d’accordo.
Ogni volta che ascolto Jessica Pratt a teatro succede la stessa cosa: canta bene, benissimo, poi ad un certo punto c’e’ come un salto di livello, lei canta ed il teatro trattiene il fiato, affascinato dalla limpidezza, dalla precisione ma soprattutto dalla incredibile dolcezza del suo canto nel registro acuto. Nella recita di oggi pomeriggio e’ successo di nuovo al momento di “Ah, non credeva mirarti”.