La scelta di inaugurare una stagione d’opera con il Guglilemo Tell, prescindendo dall’obbligo di onorare un anniversario, dovrebbe trovare la principale ragione nella disponibilità di un tenore in grado di affrontare Arnoldo. Il tenore previsto per Arnoldo non è la sola esigenza del titolo; un grand-opéra richiede anche orchestra di elevate capacità e poi, quando eseguita integrale, un soprano di voce importante e versata al canto di agilità, attese le esigenze dell’aria del terzo atto e, poi, ben tre voci gravi (protagonista, Gessler e Fürst) che coprano il ruolo di prime parti. Non per essere laudatores temporis acti, ma lo spiegamento delle voci gravi era spesso sino al primo ventennio del ‘900 il primo motivo di meraviglia negli allestimenti del Tell. Oggi tutto questo rappresenta la chimera e l’obbligo morale di onorare Rossini potrebbe essere assai più conveniente con la scelta di altri titoli. Mi rifiuto di pensare che il principale motivo della scelta potesse risiedere nella disponibilità dell’allestimento di Michieletto. Eppure tutti gli altri elementi erano di una qualità tale da rendere credibile la dubitativa illazione.
Posso dire che sotto il profilo orchestrale e vocale, con la sola eccezione di Luca Tittoto che del ruolo di Gessler è un esperto e che canta decorosamente, è stato il peggior Tell che abbia mai sentito. Ed anche visto, aggiungo benché quest’ultima esperienza limitata allo streaming del teatro.
Tralasciamo i tagli vuoi all’interno dei singoli numeri che di interi numeri che hanno ridotto il quarto atto ad un moncone limitato all’aria di Arnoldo, senza il da capo della cabaletta, alla tempesta ed al finale vero e proprio. Tagliati sempre i da capi che riguardavano il tenore in evidente difficoltà tanto da suggerire questa cautela. Non mi scandalizzo dei tagli o mi scandalizzo assai meno di un tempo dopo aver potuto verificare che la forbice non era una invenzione di Tullio (Serafin, per chi non avesse mai letto Divas and Scholars), come assume Gossett, ma uno strumento che utilizzavano anche gli autori o i concertatori coevi, a condizione che siano compensati da una esecuzione corretta o addirittura commendevole. L’orchestra sotto la guida instabile di Gabriele Ferro ha eseguito una corretta, ma letargica ouverture, poi, è stata una serie di suoni poco gradevoli, mai morbidi mai tondi, sempre secchi ed aciduli, talora fragorosi, di attacchi imprecisi. Il peggio complice anche la bacchetta il finale terzo dove la sezione “Ils gardent le silence” è stata staccata ad un tempo da coretto di avanspettacolo. Fragore diffuso dal finale primo dove l’attacco di Jemmy era men che disastroso, all’aria di Gessler ed al finale terzo; un diffuso generale senso di pesantezza in un titolo che alterna grandiosità, impeti eroici (patriottici, che diverranno secondo la critica italiana risorgimentali solo con Verdi), languore della vicenda d’amore, dove gli interpreti si comportano e cantano secondo le regole del Belcanto e una descrizione della natura, che assegna a Rossini un posto unico nella prima metà dell’800.
Del tenore di fatto abbiamo già detto ed utilizzare l’icona della fabula aesopica della rana ed il bue è poco perchè Korchak è in perenne difficoltà, duro, acido, mal sicuro in alto, in difficoltà nelle frasi di tessitura acuta e che richiedono un controllo assoluto del legato, come il duetto con Matilde, il terzetto del secondo atto e il duetto del primo perchè un tenore di grazia di oggi non è il tenore di grazia dei tempi di Rossini o del periodo immediatamente successivo. Paolino, Ramiro e Lindoro restano appannaggio di una categoria vocale ben diversa da quella di Arnoldo, Raoul, Eleazaro e Jean de Leida. Le cose non sono andate meglio con Nino Machaidze, da un certo periodo promossa a soprano rossiniano, che del soprano rossiniano è la negazione, attesi i suoni duri, spinti e forzati della voce in ogni gamma, i cui tentativi di addolcire ed usare una certa gamma di colori si risolvono in falsetti primi di sostegno. Sempre per far memoria delle parti e dei soggetti per i quali pensati ricordiamo che Laura Cinti, prima Matilde, fu l’unico soprano per cui Rossini non ritoccò – a differenza di Giuditta Pasta – le parti scritte per Isabella Colbran. Greve, pesante e monocorde il protagonista di Roberto Frontali e stridente il Jemmy di Anna Maria Sarra. Quindi sotto il profilo vocale e musicale credibili motivi per proporre il Tell, per giunta con la pretesa della prima esecuzione in francese a Palermo proprio non se ne ravvisano. Neppure argomentazioni favorevoli per questa proposizione possono venire dalla regia di Michieletto. Intendiamoci beni di michielettate non ne abbiamo viste perchè ormai un po’ di stupri, gli oppressori simili alla guardia civil, abiti moderni ne abbiamo visti in tutte gli allestimenti da Monteverdi a Shostakovich che non lasciano né segno né impressione, meno ancora scandalo, che è la merce di cui questi improvvisati cercano di campare, ma ogni volta li troviamo inadeguati ed insignificanti; non perchè vogliamo il fogliame del bosco e le architetture svizzere della piazza di Altdorf, ma perchè quegli elementi bollati con superficiale faciloneria come iconografia, inutile decorativismo sono essenziali all’opera d’arte, costituiscono al pari degli sfolgoranti acuti di Arnoldo, della ricchezza dell’ornamentazione del ruolo di Matilde, della grandiosità di cori e concertati parte integrante ed irrinunciabile del titolo della sua poetica. Coloro i quali vanno cianciando di scoperte, di modernità ed attualità nascoste per un allestimento moderno davanti al quale intonano peana tanto rumorosi quanto inadeguati offrono trista prova solo della loro ignoranza e piaggeria. E di questo presto dovremo parlare.
Un pensiero su “Fratello Streaming: Guillaume Tell dal Massimo di Palermo.”
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Non è affatto vero che Gossett indichi in Serafin “l’inventore” dei tagli: nel suo volume parla dei tagli come prassi consueta per tutto l’800, stigmatizzandola come è giusto che sia (poiché stigmatizzata e mal tollerata dagli stessi autori). Semplicemente – e giustamente – parla di Serafin come teorizzatole della giustezza dei tagli per “aggiornare” le partiture al gusto odierno e per “ripulirle” da “incrostazioni” passatiste ed inutili (i passaggi virtuosistici, i da capo e tutto ciò che rallentava l’azione), secondo una precisa visione ideologica che oggi è assolutamente incondivisibile: Serafin – uomo del suo tempo con i relativi pregi e difetti – lo scrisse, primo tra tutti, in un saggio dove teorizzò la legittimità della pratica. La differenza sta nel fatto che le forbici di Serafin colpivano ciò che lui riteneva “inutile” e d’impiccio alla sua idea di musica (per lui l’opera era rapportata al tardo melodramma verdiano e tutto ciò che se ne discostava andava limato), le forbici della prassi d’epoca tagliavano a seconda di circostanze concrete: tempo, capricci di cantanti, convenienze economiche.
Detto ciò i tagli di questo Tell invece mi scandalizzano e devono scandalizzare tutti perché sacrificano circa un’ora di musica la cui perdita è insensata: che senso ha mettere in scena un Tell, con tanto di lingua originale ed edizione critica, per poi tagliarlo in modo barbaro??? Le forbii di Ferro – assai più invasive di quelle di Serafin e neppure giustificate dalle circostanze storiche – cassano senza rinvio buona parte degli episodi corali del primo atto, l’intero suo divertissement, 9/10 del divertissement del terzo atto, l’aria di Jemmy, 3/4 del quarto atto (che passa direttamente dall’aria di Arnold, accorciata, al finale) nonché tutti i da capo e le ripetizioni. Tutto ciò è delinquenziale forse anno più del cast maldestro e dall’orribile lettura di Ferro.