In questi giorni si è parlato parecchio (forse persino troppo) di un’edizione fiorentina di Carmen, salutata da bordate di buh in ragione di un allestimento giudicato irrispettoso del libretto, soprattutto per la scelta di modificare il finale previsto dagli autori. Abbiamo poi avuto occasione di leggere il programma preliminare della prossima edizione del festival di Pesaro, quella che dovrebbe celebrare il centocinquantenario della morte dell’autore e sembrerebbe, invece, preludere alla dismissione della manifestazione adriatica dedicata a Rossini, tanto povero, in ogni senso, risulta il menù. E così è slittata di qualche giorno la pubblicazione delle riflessioni suscitate da Le comte Ory, visto la sera di San Silvestro all’Opéra-Comique, in quella che fu una delle sedi del Théâtre des Italiens, uscita di recente da importanti lavori di restauro che ne hanno rinnovato lo splendore.
La bellezza della cornice e la gioia di ascoltare uno dei vertici assoluti della produzione rossiniana nella città (anche se non nel teatro) per cui fu composta non sono bastate ad assicurare una soddisfazione completa. Anzi, il vostro Tamburini era piuttosto inca**ato, non tanto per l’esecuzione musicale (nella media odierna, quindi di livello piuttosto basso, decisamente impari alle richieste della partitura) quanto per la cifra complessiva dello spettacolo. Quello che offende non è certo la scelta di trasporre l’azione dal tempo delle Crociate a quello della conquista d’Algeria (quindi, grossomodo, all’epoca della composizione dell’opera), bensì il fatto che il regista Denis Podalydès (attore di una certa fama, anche cinematografica, nonché socio della Comédie Française – e ci chiediamo se i testi letterari d’Oltralpe subiscano analogo trattamento da parte di un simile consesso…) abbia trasformato la sapida commedia in una farsa volgare quanto risaputa, a base di dame e damazze in preda a isterismi e convulsioni erotiche, suore (e non pellegrine…) che fanno turbinare le gonne (al di sotto delle quali indossano slip di taglio ovviamente novecentesco), schiaffi distribuiti un po’ a caso (si vorrebbe evocare lo slapstick e si arriva ai nostrani Boldi e De Sica), solisti e coro che, durante i concertati, si muovono a scatti, in una stanca parodia fuori tempo massimo delle invenzioni (ben altrimenti “dentro” la musica) di Jean-Pierre Ponnelle. Anche la tristezza di un décor unico e spoglio accentua il tono da recita in parrocchia, che trova i suoi momenti peggiori in quelli in cui è protagonista assoluta la Contessa di Julie Fuchs. La cantante poi “ci mette del suo”, trasformando la nobile, forse ingenua ma tutt’altro che sprovveduta vedova in una sorta di Olympia e disseminando la parte di acuti (i primi) prossimi al fischio e sovracuti un po’ meno disarmanti, ma microbici e comunque privi della “polpa” che la voce presenta, anche in forza della generosa natura, in zona centrale (in basso compaiono, invece, suoni in difetto di appoggio e quindi ai confini dell’inudibile). Si aggiunga che l’esecutrice è tutt’altro che impeccabile nei passaggi di coloratura (chiusa dell’aria) e la musicista non brilla per fantasia e gusto nell’ornamentazione (ma in questi casi dovrebbe essere il direttore, se ne fosse in grado, a guidare, consigliare, in casi estremi imporre soluzioni adeguate al solista). Il risultato finale evoca, più che Rossini, l’Offenbach operettistico. Considerazioni analoghe o poco dissimili valgono per l’antieroe eponimo, Philippe Talbot, piacevole a udirsi in fascia centrale, ma dall’emissione fastidiosamente nasale in zona acuta, a perigliosa imitazione del modello tenorile rossiniano più in voga, quello costituito da Juan Diego Flórez (anche perché è oggettivamente più semplice a imitarsi, soprattutto nei malvezzi, rispetto a un Blake). Con simili coprotagonisti è facile per Gaëlle Arquez (Isolier) emergere e primeggiare. La voce, che fa pensare più a un soprano lirico che non a un mezzosoprano (tanto facile risulta l’ottava superiore, fin dall’esordio del duetto con Ory, rispetto alla zona centro-grave), non è torrenziale, ma a differenza di quella dei colleghi corre alla perfezione nella raccolta salle Favart; l’interprete è sobria e misurata, non forza e risolve i passaggi più acrobatici in maniera dignitosa, se non brillante. Insomma, con i tempi che corrono è davvero una piacevole sorpresa e l’auspicio è quello di poterla riascoltare in questo repertorio, finora da lei poco frequentato (visto il senno normalmente dimostrato dai responsabili della programmazione artistica dei nostri teatri, non mi stupirei di vederla scritturata come Malcom o Andromaca, ovvero in parti da autentico contralto, giusto per semplificarle la vita…). Poche soddisfazioni dalle voci gravi, che siano quelle dei bassi (Patrick Bolleire denuncia tutti i suoi limiti in alto nella cabaletta già di lord Sidney, mentre il Raimbaud di Jean-Sébastien Bou è ogni senso fioco nella rielaborazione dell’aria “del catalogo”) o quella (ancora una volta, di schietto soprano) di Ève-Maud Hubeaux, elegante (ma solo a vedersi) nei panni di Ragonde. Contribuisce alla cifra complessiva dello spettacolo (esagitata in apparenza, in effetti piuttosto piatta e meccanica e comunque distante dalla brillantezza e dallo charme del titolo) la direzione di Louis Langrée, incapace di governare gli ensemble, affezionato a tempi piuttosto slentati (che non favoriscono certo i cantanti, tutti di limitate risorse), sconsideratamente alternati a frenetiche marcette e arruffati passi in accelerando, impermeabile alle suggestioni melanconiche di passi come l’incipit del secondo atto e il terzetto conclusivo. Peccato, davvero: l’occasione di proporre una delle grandi opere del Rossini francese (monumento di sapienza compositiva, intuito drammatico e arte del “riciclaggio”) si è trasformata in una sorta di veglione (e non solo per l’incombere dell’anno nuovo).