E mentre proseguono i peana, che tra paragoni angelici e damnatio della polvere, che occorrerebbe rimuovere dal titolo, evocano una celebre canzonetta che DOBBIAMO proporre in appendice, vanno avanti le repliche della Bohème petroniana. Per completezza e dovere di cronaca (e non già, come altri, per godere di miracoli che si ripeterebbero con ritmi da Medjugorje) ho ascoltato il secondo cast in occasione della recita di martedì 23, conclusasi con una timida contestazione rivolta alla coppia protagonistica. Il Rodolfo di Matteo Lippi, al netto della maggiore freschezza del mezzo vocale, è assolutamente pari all’osannato Demuro, mentre Alessandra Marianelli come Mimì sfoggia, almeno nel primo atto, una certa consistenza al centro rispetto alla titolare del primo cast, consistenza che peraltro va rapidamente scemando e la riporta presto ai livelli della collega. L’organizzazione tecnica è del pari precaria, con abbondanza di suoni malfermi, sovente anche stonati in zona medio alta e una prima ottava ovattata e sorda. Le intenzioni di fraseggio ci sarebbero anche (al netto della non-regia e di una direzione che, dai tempi staccati, sembra credere di avere in scena la Tebaldi o almeno la Favero), ma in simili condizioni vocali è oggettivamente impossibile essere interpreti nel senso pieno della parola. Onde corrucci e limitatissime ire da parte del pubblico, che peraltro applaude senza far motto gli altri esecutori. La sola Ruth Iniesta come Musetta mi sembra meritare, seppur parzialmente, il successo. Rispetto alla Lucia dell’anno scorso la voce risulta più piena, pur presentando i già rilevati limiti in alto (limiti cui potrebbe ovviare non già una natura più generosa, bensì una diversa emissione), e l’interprete, senza brillare per originalità, affronta il valzer con disinvoltura e riuscendo, nonostante il tempo letargico in buca, a piazzare anche una discreta smorzatura sul si naturale. Nel quartetto del quadro successivo è l’unica che non ha problemi a spiccare sull’orchestra e soprattutto ad articolare le frasi. Con i tempi che corrono, non è poco. Di certo la signora è l’unica del “poker” (compreso il Marcello di Sergio Vitale, assolutamente in linea con quanto proposto da Alaimo) che avrebbe meritato la promozione in primo cast e la sola interprete, nelle due compagnie, degna di passare al cinema e in televisione. Che le sia stata anteposta la Torosyan mi sembra indicativo del fatto che si sia accordata la preferenza alla cantante giudicata più “in linea” con il canone di bellezza imposto dalla ripresa video. Niente di nuovo in questo, ma il compito di regista e costumista, se ne fossero in grado, sarebbe anche quello di evitare di abbigliare come una cubista una donna dal bel viso, piuttosto bassa di statura e non filiforme. Abiti dalle maniche ampie e magari dalla scollatura generosa, sciarpa, cappello e manicotto (ma non come quello, tristissimo perché incongruo, che stringe la Mimì di lamé vestita) aiutano a risultare più alte e proporzionate, e quindi più plausibili, dovendo portare in scena grisette o figure analoghe. Non è singolare che, nel momento in cui si scritturano i cantanti tenendo conto (anche) del loro aspetto fisico, si finisca per renderli più goffi e ridicoli che mai, oltretutto nel momento in cui si sceglie di andare contro le indicazioni fornite dagli autori? So di ripetermi, ma basterebbe leggere la didascalia che annuncia l’entrata in scena di Musetta e Alcindoro al quadro del Quartiere Latino: “All’angolo di via Mazzarino appare una bellissima signora dal fare civettuolo ed allegro, dal sorriso provocante. Le vien dietro un signore pomposo, pieno di pretensione negli abiti, nei modi, nella persona”.