L’Opéra de Paris ha prodotto un nuovo allestimento del Don Carlos di Verdi puntando sull’aspetto filologico e sui grandi nomi. Se sotto il primo aspetto il risultato è stato positivo, dal momento che l’opera è stata rappresentata nella versione francese senza i tagli di tradizione e con il ripristino dei brani tagliati dallo stesso autore in occasione della prima (peccato, però, per la scelta di eliminare del tutto i ballabili, certamente necessari per ricreare lo spirito del Grand-opéra), sotto il secondo, invece, l’esito ha lasciato interdetti pubblico e critica, delusi di non poter far ricorso al solito campionario di retorica trionfalistica nei confronti di una produzione che, di fatto, non ha convinto come i più si attendevano.
Il punto di forza della produzione è stato senza dubbio il direttore Philippe Jordan, che ha voluto scommettere su questo titolo e ha saputo lavorare egregiamente con l’orchestra. Jordan ha diretto con piglio sicuro e grande cura, ponendo in evidenza numerosi dettagli della partitura e cercando di offrire una narrazione unitaria; ciononostante, vi sono state delle diseguaglianze e, in alcuni punti, specie in quelli più scopertamente drammatici, la tensione veniva a mancare. Nel complesso, ho trovato più convincenti gli ultimi tre atti rispetto ai primi due, ma alcune delle pagine più famose sono state irrimediabilmente rovinate dai solisti.
Come è noto, Don Carlos è titolo difficile da allestire per la necessità di trovare almeno cinque fuoriclasse; in questo caso i grandi nomi erano cinque, i grandi cantanti zero. Oltremodo deludente Jonas Kaufmann, ombra di se stesso sia come attore (nonostante le sue solite espressioni da bel tenebroso complessato valide per tutti i personaggi e i soliti rotolamenti a terra, tutti elementi per cui i suoi fan, crocerossine mancate, vanno in visibilio), sia vocalmente. La voce, infatti, è di colore orchesco (Filippo II era timbricamente più chiaro), debole, priva di slancio, regolarmente urlata e calante in acuto, povera di dinamiche, in imbarazzo negli ormai celebri falsettini e, come se non bastasse, la dizione era incomprensibile non appena la tessitura saliva o diventava scomoda. Il ruolo, nella sua versione originale, mette il cantante tragicamente alle strette e palesa che Kaufmann come cantante è (s)finito… almeno finché non comincerà a seguire il funesto esempio di Domingo.
Parimenti deludente Sonia Yoncheva, soprano lirico dotato di bella voce, buona tecnica e reali potenzialità. La voce è sana e sonora, tuttavia il recente cambio di repertorio inizia già a lasciare i primi segni: le dinamiche sono assai difficoltose (specie i piani) e non sono adeguatamente risolti né i gravi, frequentemente sollecitati, né gli acuti, che tendono ad essere indietro e non possono essere modulati, ma solo emessi in forte e con sforzo. La Yoncheva non ha la robustezza vocale necessaria per rendere giustizia al personaggio di Elisabetta: resta sempre una buona Mimì che, con un certa eleganza e senza voler strafare, si picca di vestire i panni della regina; globalmente è risultata migliore nei duetti e nei pezzi d’assieme, piuttosto che nelle scene soliste. È un peccato vedere una cantante giovane e potenzialmente talentuosa rovinarsi così prematuramente… che senso ha seguire le orme della Netrebko, la quale ha, però, una voce più robusta e una maggior faccia tosta?
Anche Ildar Abdrazakov si dimostra impari al grande ruolo di Filippo II: la voce è gradevole, ma piccola, corta in basso e non perfettamente girata in acuto. Il ritratto del sovrano, per cui si richiede un grande basso cantante e non un baritono che scurisce la voce, risulta sbiadito e rimpicciolito per la mancanza di autorevolezza. Anche da un punto di vista interpretativo si determina un situazione paradossale per cui il padre risulta rispetto al figlio molto più giovane vocalmente e giovanile nella caratterizzazione.
Veniamo ai trionfatori della serata, Ludovic Tézier ed Elina Garanča. Il primo, amatissimo in Francia, ha cercato di rendere con gusto ed eleganza il personaggio di Posa nonostante una voce povera di smalto e non a suo agio in acuto. Alla dizione, ovviamente ottima, ha cercato di far corrispondere un’interpretazione sfumata e varia, talvolta riuscendoci (purtroppo non nella scena della morte in cui la stanchezza era percepibile). Nonostante il ruolo richieda voci e interpreti di ben altra caratura, rispetto alle ultime prove disastrose in cui l’avevo ascoltato l’ho trovato notevolmente migliorato e addirittura apprezzabile rispetto ai colleghi già menzionati. Grande successo anche per la bellissima Elina Garanča debuttante nel ruolo della principessa Eboli. La cantante, certamente ben preparata, non ha un mezzo del tutto adatto a questo repertorio, ma la voce, bella e sana, le consente queste escursioni senza eccessivi demeriti. Il più grave problema della Garanča è la voce non completamente libera nella zona medio-grave e per questo debole: la tendenza a tenere il suono in bocca pregiudica la corretta espansione dello stesso e, inoltre, la pronuncia risulta impastata e incomprensibile. Le due grandi arie la mettono in difficoltà, la canzone del velo per la coloratura (non perfettamente sgranata) e la latitante sensualità, la seconda per gli sbalzi repentini e la difficoltà a legare i suoni nella zona di passaggio dal grave al medium, tuttavia anche nel terzetto la tessitura non mette certo in evidenza i pregi della cantante. In ogni caso, rispetto ai colleghi si apprezzano lo slancio, la correttezza e il perfetto physique du rôle.
Per quanto concerne gli altri personaggi, si segnalano l’Imbarazzante Grande Inquisitore di Dmitry Belosselskiy, lo scarsamente incisivo Frate di Krzysztof Baczyk, il buon Thibault di Ève-Maud Hubeaux (già indecente Andromaca a Parigi l’anno scorso), passabili gli altri comprimari. Sull’insulsa regia di Warlikowski, che potrebbe andar bene per qualsiasi opera e ripropone clichés visti e stravisti senza alcuna originalità (a meno che un bacio saffico e qualche proiezione buttata là non siano considerati originali oltralpe!) non voglio spendere parole.