L’Opera nazionale olandese ha proposto nelle scorse settimane una nuova produzione della pièce verdiana normalmente intesa come “la maledetta”, “la malefica” e simili, affidata alla cure registiche di Christof Loy e a quelle musicali di Michele Mariotti. Non abbiamo assistito alla rappresentazione, a differenza di quei critici italiani che appositamente si sono recati ad Amsterdam e hanno poi vergato recensioni, che sembrano risentire dell’uso ed abuso di sostanze psicotrope di ogni genere e qualità. Avendo però udito la registrazione, proposta dalla radio olandese, abbiamo qualche osservazione da condividere. Questo, e lo abbiamo scritto già più volte, è un titolo che oggi risulta e soprattutto viene descritto come irrappresentabile, non solo per la fama di opera che mena gramo, ma per le richieste onerosissime che graverebbero sugli esecutori. Ora, questa descrizione sarebbe a nostro avviso più adatta ad altri titoli dello stesso autore, in primis Don Carlo e Ballo in maschera, quest’ultimo, soprattutto, impietoso banco di prova per un soprano drammatico verdiano, che voglia davvero dirsi tale. A fronte di una più contenuta (che non vuole dire, comunque, inesistente) difficoltà delle prime parti previste corrisponde però, in FDD, un impegno almeno altrettanto oneroso riservato al direttore d’orchestra, che, come nei titoli summenzionati, è chiamato a gestire una varietà di situazioni musicali e drammatiche, la cui perfetta concatenazione costituisce la cifra stessa del titolo. L’opera, caleidoscopica, vive dell’alternanza degli elementi tragico, comico e grandioso, del dramma privato, “borghese” che si disperde, per poi emergere nuovamente, nella cupa tragedia della guerra, culminando in un’esaltazione trascendentale, che anima forse il più spettacolare (assieme, non casualmente, a quello di Don Carlo) finale verdiano. Tutto questo nelle mani di un direttore che, pur più avvezzo ai titoli del repertorio cosiddetto belcantistico, ha comunque già affrontato sia le opere giovanili di Verdi, sia alcuni dei capolavori della maturità (e altri sono in programma per l’incipiente stagione), dovrebbe costituire un cimento, e non la Caporetto che palesa, invece, la ripresa radiofonica. E non ci riferiamo, naturalmente, alla qualità dell’orchestra (la Filarmonica dei Paesi Bassi vanta, almeno nei passi a solo, una sicurezza e una morbidezza di suono riscontrabili in poche altre compagini di un teatro d’opera), ma all’incapacità del direttore di differenziare, fin dalla sinfonia, il tema dell’ineluttabilità del destino da quello del perdono celeste, entrambi ministrati con indifferenza e assimilati, specie il secondo, a una marcetta. La tendenza a “fare ammuina”, a base di sonore “pestate” che rimandano alla peggiore tradizione mutiana, si manifesta soprattutto nelle scene cosiddette di colore (inizio del secondo atto, finale del terzo, scena della minestra), mentre nel secondo quadro del secondo atto, così come nei soliloqui dei protagonisti e nel momento del trapasso del mentito eremita, predominano andamenti egualmente pesanti e sonorità slavate, che non riescono a essere, come evidentemente si vorrebbe, eleganti e diafane, sempre per inseguire il fantasma (puntualmente evocato dalla critica di cui sopra) del Verdi da “ripulire” e da “svecchiare” (anche qui, il riferimento sembra essere il Trovatore “schubertiano” della stagione scaligera del centenario verdiano, che era, però, amministrato con altra coerenza, pur nella discutibilità dell’assunto). Egualmente piatto e meccanico, con scarso rispetto dello spartito (che abbonda di indicazioni dinamiche e agogiche anche e soprattutto nei passi più distesi) e dei limiti vocali degli esecutori, che da una direzione meno metronomica e più attenta alle ragioni del canto avrebbero tratto non poco giovamento, l’accompagnamento alle arie, soprattutto la prima di Leonora e quella di don Alvaro, quest’ultima priva di qualsiasi allure notturna e autentica disperazione. Insomma, una prova in assoluta coerenza e continuità con quelle bolognesi del direttore, che davvero non riusciamo a comprendere in forza di quali dinamiche possa passare, non già da giovane promessa dello star system, ma da professionista ormai rodato del settore. E su questo punto invitiamo a confrontare quanto udito da Amsterdam con la testimonianza di una rappresentazione bolognese di una trentina di anni fa, in cui in scena come sul podio latitavano i divi, ma vi erano esecutori rodati e interpreti plausibili. La qualità del plateau vocale è assolutamente analoga a quanto udito di recente in teatri di antico blasone e di fama ormai prettamente locale (Parma, tanto per essere chiari). Se Franco Vassallo risulta al solito in difetto di ampleur e nobiltà verdiana (ma si dimostra, se non altro, sorvegliato sotto il profilo espressivo), Roberto Aronica risulta ormai improponibile, con suoni aperti e sovente stonati al centro. Non meno decotta Eva-Maria Westbroek, che con voce da anziano soprano lirico (da Bohème, per intenderci) scende in maniera sgangherata (soprattutto al duetto con Alvaro) e tocca i parchi acuti previsti con suoni che hanno ben poco del canto professionale, anche se, tutto sommato, il limite più serio (che emerge fin dal primo assolo e diviene poi evidentissimo all’arrivo sulla spianata del convento della Madonna degli Angeli) è costituito dalla mancanza di un legato degno di questo nome. Non trovo parole per descrivere la Preziosilla, parte esornativa che dovrebbe risolversi in un canto malizioso e brillante, di per sé non estraneo alle corde di un’acclamata specialista del repertorio non solo verdiano, ma donizettiano e belliniano come Veronica Simeoni. Il si naturale (opzionale) su “Ed io sarò con voi” è un urlo, ma il peggio viene dopo, con l’esibizione di una voce in difetto di appoggio, sovente stonata al centro, ballante in alto. Il tutto, giova ribadire, in una parte che si concentra e si giustifica, di fatto, in una realizzazione spigliata e brillante di quanto previsto dall’autore. L’altro “caratterista”, Alessandro Corbelli quale Melitone, possiede ben altra padronanza del ruolo, ma la scena del quarto atto lo vede in affanno (complice anche la grevità dell’orchestra), mentre Vitalij Kowaljow ripropone il solito modello di basso dell’Est Europa (Ghiaurov, purtroppo, non certo Kipnis o Kastorsky).
6 pensieri su “Sorella radio: potenza del fato olandese.”
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critici italiani che appositamente si sono recati ad Amsterdam e hanno poi vergato recensioni, che sembrano risentire dell’uso ed abuso di sostanze psicotrope di ogni genere e qualità.
LA VOSTRA MALEDUCAZIONE ED IGNORANZA NON HA LIMITI….
… ma pure l’improntitudine di certi difensori d’ufficio mica scherza.
Violino…..toccato nel vivo eh?
possiamo andare avanti di copia e incolla…..
critici italiani che appositamente si sono recati ad Amsterdam e hanno poi vergato recensioni, che sembrano risentire dell’uso ed abuso di sostanze psicotrope di ogni genere e qualità.
LA VOSTRA MALEDUCAZIONE ED IGNORANZA NON HA LIMITI….
Quello del copia e incolla…..l’ ignoranza soprattutto eh?….ti son cadute le braghe caro mio….
perdona la mia poca intelligenza, ma ignorante è la persona che non sa. qui il passo che hai copincollato potrebbe dimostrare tante cose ma l’ignoranza nel senso corrente del termine non la ravviso…..se puoi accendere la lampadina del mio ottuso cervello, grazie