La terza edizione del Festival internazionale di musica contemporanea, organizzata nel 1934 dalla Biennale di Venezia con il generoso contributo (per la prima volta nell’allora breve storia dell’istituzione) delle autorità statali, vide, oltre a una tournée dei complessi dell’Opera di Stato di Vienna (Così fan tutte e Donna senz’ombra, quest’ultimo titolo in prima italiana e alla presenza del compositore), un’esibizione dei Wiener Philharmoniker (al Palazzo della Ragione di Padova, sempre perché le iniziative per “valorizzare la provincia” non le hanno inventate i politici del nostro tempo) e svariati concerti dedicati ai maggiori compositori dell’epoca, quelli già affermati come gli emergenti (Stravinsky, Milhaud, Berg, Pizzetti, quindi, e poi Dallapiccola e Martinu), la proposta, al Teatro Goldoni, di tre opere da camera, riunite in una sola serata: “Una favola di Andersen” di Antonio Veretti, “Teresa nel bosco” di Vittorio Rieti e “Cefalo e Procri” di Ernst Krenek. Quest’ultimo titolo, caduto (salvo mio errore) nell’oblio, viene riproposto in questi giorni al Malibran di Venezia, nella stagione della Fenice, che ha premesso all’operina (organico orchestrale limitato, cinque voci soliste, poco più di trenta minuti complessivi) due lavori della compositrice Silvia Colasanti: “Eccessivo è il dolor quand’egli è muto”, un ripensamento del lamento di Procri da “Gli amori d’Apollo e di Dafne” di Francesco Cavalli, e “Ciò che resta”, appositamente rielaborato dall’autrice a pochi mesi di distanza dalla prima assoluta, svoltasi nell’ambito della stagione sinfonica del teatro. L’iniziativa è meritoria, perché risponde agli obiettivi che sono (o che dovrebbero essere) propri a un teatro d’opera con la storia e la tradizione della Fenice: riscoperta di titoli dimenticati, sostegno alla musica contemporanea, riflessione su miti e archetipi che attraversano quattro secoli di teatro musicale. E se lo spettacolo ha delle pecche (di cui diremo), il risultato complessivo è più che positivo e avrebbe meritato un pubblico decisamente più numeroso di quello che, domenica scorsa, popolava l’antico teatro di san Giovanni Grisostomo. Pubblico all’inizio perplesso, poi sempre più coinvolto e, alla fine, decisamente soddisfatto, come hanno dimostrato gli applausi, non solo di cortesia, al termine del dittico di Colasanti e soprattutto ai saluti finali. Il regista Valentino Villa ha ideato uno spettacolo in cui non c’è soluzione di continuità fra i due compositori (tre, contando anche Cavalli). Una voce recitante (invisibile, come dovrebbe essere quella di Crono nel dramma di Krenek, e amplificata) annuncia il tema della serata: gli amori e le sofferenze dei giovani sposi Cefalo e Procri, vittime della gelosia, ma più ancora dell’invidia degli Dèi, gelidi burattinai, cortesi e spietati nei loro eleganti abiti da sera. Cefalo dapprima inganna la sposa, mettendone alla prova la fedeltà, e poi la uccide, avendola scambiata per un animale feroce: anche al termine dell’opera di Krenek (che prevede un lieto fine, come si addice a una “moralità pseudo classica”, secondo il sottotitolo del testo di Rinaldo Küfferle) la conclusione è segnata dalla violenza delle lance, sospese nel fondo della scena. Lo spazio scenico è neutro, evocando ora un laboratorio, ora un teatro (delle proiezioni mentali?), i costumi caratterizzati da un’atemporalità che, discostandosi dall’arcaismo “futurista” immaginato dal libretto, non trovano una comparabile carica suggestiva. Se l’insieme regge, buona parte del merito va al direttore Tito Ceccherini, capace di sottolineare con finezza, nella musica di Colasanti, i richiami al recitar cantando e al sistema modale e, in quella di Krenek, le levità mozartiane, così come gli omaggi allo Strauss di Arianna e Donna senz’ombra, valorizzando ora la forza dell’invenzione musicale, ora le finezze dell’orchestrazione. Tra i cantanti si distingue Silvia Frigato, un poco in difficoltà nel brano di Colasanti (nel momento in cui la linea melodica parzialmente si discosta dall’originale cavalliano e la tessitura si fa conseguentemente più alta) ma sempre attenta a una chiara e pertinente articolazione del testo. Leonardo Cortellazzi (Cefalo) le sta al fianco con dignità, nonostante un piccolo vuoto di memoria (impietosamente svelato dai sopratitoli). Più in ombra le figure degli Dèi, in particolare Aurora (Cristina Baggio), dalla voce un po’ troppo stridula per essere una plausibile messaggera del giorno. Le repliche continuano fino a sabato 7. Chi ha modo, non perda questo piccolo, rinfrescante (e rinfrancante) spettacolo.