Con Giulia Grisi sono fra gli autori del blog quello che ha sentito più volte in teatro Luciano Pavarotti a partire da un Elisir d’amore scaligero del dicembre 1971 sino ad una recita di Tosca il 27 ottobre 1999 al Met. Posso ricordare Pavarotti Nemorino ancora nel 1979, Edgardo e Fernando di Favorita, don Carlos, Rodolfo di Boheme e Rodolfo di Luisa Miller, Cavaradossi e Riccardo del Ballo, piuttosto che Radames. Se escludiamo il duca di Mantova e Renato des Grieux il repertorio intero di Pavarotti o quasi. Non si può certo dire che ruoli come Chenier e Manrico questo affrontato più volte siano le opere tipiche e caratteristiche del tenore modenese.
Di tutti gli ascolti devo dire che il primo e l’ultimo sono i più impressionanti nella mia memoria. Il primo perché anche un undicenne educato agli ascolti di Gigli o Schipa coglie la qualità e la bellezza del timbro, che si espandeva luminoso nella sala senza che in nessuna nota suonasse forzata o non sicura. Poi l’ascoltatore cresce ed il Nemorino del 1979, quando Pavarotti cominciava ad essere Pavarotti, suonava sempre incomparabile per qualità vocali, ma piatto e poco espressivo, forse già “populista” nel fraseggio. Dopo anni di ascolti, alcuni coincidenti con clamorosi scivoloni della carriera di Pavarotti (Fernando, Edgardo e don Carlos) altri con trionfi come il Rodolfo di Miller e il Riccardo del Ballo e tanta, tanta demagogia nella carriera, guidata dall’evento e dal guadagno, causalmente ebbi occasione di sentire il tenore ultrasessantenne al Met quale Mario Cavaradossi un ruolo, che cantava ancora perché assolutamente comodo alle condizioni ed ai mezzi del momento e in un angolino del teatro la voce giungeva perfettamente a fuoco come se il cantante fosse lì di fianco. Di fraseggio, musicalità, idea del personaggio poco o nulla, la voce di Pavarotti che in quel ruolo era ancora validissimo per non dire unico. Era stata l’impressione che Pavarotti mi aveva fatto qualche anno prima già in disarmo quale don Carlos alla Scala. IL cantante era evidentemente poco preparato, i difetti di musicalità aggravavano l’impreparazione, ma la voce di Pavarotti era davanti a tutti non perché più voluminosa, ma perché praticava e per studio e per naturale quanto eccezionale predisposizione un canto che gli altri colleghi di quel fortunoso don Carlos non conoscevano come lui. Eppure almeno le interpreti femminili di quell’edizione rientravano fra le voci dotate o dotatissime in natura.
Rileggo capisco che usare termini come populista e demagogico, impreparazione e scarsa musicalità per un cantante come Pavarotti può, giustamente suonare stonato e fuori luogo. Credo però che la dote di grande qualità ed eccezionale nella sua generazione (solo Jaime Aragall aveva la voce più bella perché dotata della tipica sensualità delle voci tenorili spagnole) sia stata dapprima la propulsione per una grandissima e rapida carriera e poi il freno a che il cantante diventasse un artista. Preciso nessuno dei cantanti della generazione di Pavarotti (Kraus e Bergonzi sono di quella appena precedente) è stato un artista come lo furono Schipa o Pertile e neppure tenore del popolo come lo fu Gigli, rispetto a Pavarotti munito di un controllo e sostegno tecnico di gran lunga superiore ,che gli consentiva autentici piani e pianissimi e vero canto a fior di labbro. Questo sostanzialmente era precluso a Pavarotti che almeno dal 1975 preferiva spacciare per piani e pianissimi sospiretti e falsettini e che dopo il 1982 si mise pura a cantare aperto in zona di passaggio come lo scivolone di Lucia in Scala (opera poi sparita dal repertorio del tenore come Favorita e Puritani) e una infelice incisione di Gioconda comprova.
Non credo neppure come dice Bonynge che opere come Trovatore ed Ernani fossero precluse a Pavarotti, solo che andavano affrontate con una preparazione musicale ed interpretativa differente dalla faciloneria del tenore modenese, che si affidava alla propria dote, che in quel periodo era unica. Avesse cantato solo dieci o vent’ anni prima avrebbe patito concorrenze forse insuperabili con la sola dote di natura. Dote che resta splendida, unica nella sua generazione, non unica nella storia del canto. Poi esistono appassionati della storia dell’opera e del canto e melomani.