Passerà – giustamente – senza lasciare il segno l’esecuzione della Margherita d’Anjou di Giacomo Meyerbeer a Martina Franca. La scelta, invero originale, di proporre un titolo tanto raro quanto potenzialmente stimolante in questo periodo di rinnovata popolarità – con tutti i limiti del caso – di Meyerbeer si affloscia tragicomicamente al momento della realizzazione. Infatti, dimenticate le polemiche sulla demente regia incentrata sul mondo della moda (!!!), unica ragione della pubblicità di cui ha goduto questo preteso evento, nessuno serberà il ricordo di questa inutile produzione. Se ne verrà fatto un dvd o un cd, com’è costume negli ultimi anni, vorrà dire che qualcuno ha davvero soldi da buttare, oltre a un desiderio perverso di “tramandare” ai posteri pessime esecuzioni di opere desuete. Qualora via sia l’interesse di ascoltare questo titolo, si raccomanda l’edizione della benemerita Opera Rara, che radunò un cast decente e poté contare su una realizzazione seria e di livello incommensurabilmente superiore a quello offerto dal Festival della Valle d’Itria.
Nei primi due decenni dell’800 era abitudine non rara tra i compositori di lingua tedesca quella di soggiornare per un certo periodo in Italia, componendo lavori nello stile italiano. Anche Meyerbeer, seguendo l’esempio di Gyrowetz, Weigl, Winter, decise di valicare le Alpi, ma rimanendo poi in Italia per ben 7 anni tra 1817 e 1824; frutto di questo lungo soggiorno sono sei lavori: Romilda e Costanza (1817), Semiramide riconosciuta (1819), Emma di Resburgo (1819), Margherita d’Anjou (1820), L’esule di Granata (1822) e, infine, Il Crociato in Egitto (1824). Margherita d’Anjou è un melodramma semiserio il cui libretto fu elaborato da Romani a partire dal mélodrame di Charles-René Guilbert de Pixérécourt, Marguerite d’Anjou rappresentato nel 1810 al Théâtre de la Gaîté a Parigi, e dal libretto di Luigi Romanelli L’orfana d’Inghilterra, ossia Margherita d’Anjou musicata da Weigl (1816). Romani, per sua stessa confessione, realizzò il lavoro in fretta e senza convinzione: inizialmente, infatti, il contratto con La Scala prevedeva la realizzazione di una Francesca da Rimini, soggetto successivamente vietato dalla censura con gran dispiacere del compositore che, di contro, era rimasto molto colpito dalla vicenda. L’originale di Pixérécourt era un mélodrame à grand spectacle in tre atti che prevedeva, tra le altre cose, esplosioni di bombe e l’incendio di un’intera foresta nel corso di un duello; il libretto di Romani, invece, si articola in due soli atti, presenta i versi sciolti nelle sezioni di recitativo semplice e modifiche di alcuni personaggi, specialmente quelli comici. Il soggetto dell’opera è desunto da un episodio della Guerra delle due Rose (1455-1485) che vide contrapporsi in seguito alla morte di Enrico VI d’Inghilterra le casate dei Lancaster e degli York; esso costituisce il primo incontro di Meyerbeer col genere storico.
Il cast della prima era di ottimo livello: nei panni della regale e materna Margherita, personaggio profondamente patetico e dolente, il soprano Carolina Pellegrini (sul cui conto non si sa molto, se non che cantava Mozart, Pavesi, Rossini); l’eroico, ma tormentato Lavarenne era il tenore Nicola Tacchinardi; il fedele Carlo Belmonte era il basso Nicolas-Prosper Levasseur, al suo primo incontro con Meyerbeer, che in seguito lo avrebbe voluto per le prime di Robert le Diable, Les Huguenots e Le Prophète; il veterano Nicola Bassi vestiva i panni del buffo Michele; in ultimo, Rosa Mariani, primo Arsace della Semiramide rossiniana, interpretava la coraggiosa e innamorata Isaura. La critica dell’epoca riporta giudizi sostanzialmente positivi e per la musica e per gli interpreti, nonostante alcuni pezzi dell’opera furono trovati non ugualmente ispirati o eccessivamente lunghi.
Confesso che mi sfugge completamente il senso di eseguire opere di questo tipo (rare, magari non capolavori, ma comunque pensate per voci e interpreti di primo piano) senza grandi interpreti, oppure, in mancanza di essi, senza un lavoro davvero approfondito e capillare sullo stile e sulla drammaturgia. Se la preoccupazione maggiore di questi cantanti buttati allo sbaraglio da un sistema che non li tutela è eseguire alla bell’e meglio le note, è evidente che di interpretazione non si possa neanche parlare. Ed è questo il caso. Margherita d’Anjou – è bene ribadirlo – è un’opera semiseria di argomento storico con al centro una regina e nobili d’alto rango: il lieto fine non trasforma il titolo in un’opera buffa e non rende lecito dissociare i personaggi dagli stilemi dell’opera tragica, dal fraseggio a loro consono e dal tipo di voci richiesto.
Il direttore Luisi si disimpegna senza riuscire a valorizzare al meglio l’orchestrazione del giovane Meyerbeer, non ancora maturo, ma certamente fantasioso nel ricercare soluzioni originali e un equilibrio tra la formazione musicale tedesca e il modello italiano – Rossini in primis – cui il compositore tendeva non per mero desiderio imitativo, ma coll’intenzione di sviluppare forme nuove e originali a partire da esso. Luisi, alla testa di un’orchestra non certo di primo piano, cerca di porre l’accento sull’elemento guerriero puntando su ritmi serrati, slancio drammatico e un suono corposo, tuttavia, si ha spesso la sensazione che parecchi momenti siano tirati via; i tempi spesso troppo sostenuti, inoltre, mettono in difficoltà il già debole cast. Il coro non è esente da mende: non vi è perfetta coesione e sono palesi limiti evidenti, specie nel settore femminile.
Giulia de Blasis è una Margherita dalla voce senescente e priva di corpo, una soubrette inesistente nei gravi, in difficoltà nella coloratura che non sia picchettata, aspra e stridente in acuti e sopracuti, purtroppo generosamente interpolati a sproposito; la scena del secondo atto esemplifica bene i limiti canori (la cabaletta Incerto palpito è un disastro) e i limiti d’interprete. La buona volontà non basta se il ruolo è così al di sopra dei propri mezzi. Pessimo il tenore Anton Rositsiki (Lavarenne): volgarissimo nell’emissione e urlante più che mai, sfoggia una dizione cattiva, non è minimamente in grado di controllare la voce e di piegarla a qualsivoglia tipo di sfumatura, interpola ovunque sopracuti orrendamente eseguiti e inopportuni, la coloratura relativamente rapida e precisa non basta a compensare i limiti di un canto che andrebbe reimpostato da zero; ascoltarlo è stato davvero faticoso, specie nei suoi due momenti solistici. Laurence Meikle (Carlo Belmonte) è uno dei tanti bassi di oggi: ingolato e in difficoltà sia nel grave che nell’acuto. Marco Filippo Romano nei panni del buffo (Michele Gamautte) non se la cava male nel complesso, anche se la voce nei passaggi più rapidi del sillabato tende eccessivamente al parlato. La migliore della compagnia è stata senza dubbio Gaia Petrone che può vantare un bel timbro mezzosopranile e ha cercato di interpretare, oltre che di cantare, il bel ruolo di Isaura (cui spetta anche il rondò finale Ah! sposo adorabile); nonostante il suono sia un po’ basso con conseguente cambio di colore di voce in acuto, il timbro è bello, l’agilità eseguita con correttezza e precisione; la personalità non è parsa debordante, la cantante, semmai, dimostra di aver studiato approfonditamente l’incisione di Opera Rara e l’esecuzione di Daniela Barcellona, imitandola a tratti. I comprimari passano inosservati.
MARGHERITA D’ANJOU
Margherita, Giulia De Blasis
Isaura, Gaia Petrone
Duca di Lavarenne, Anton Rositskiy
Carlo Belmonte, Laurence Meikle
Michele Gamautte, Marco Filippo Romano
Riccardo, duca di Glocester, Bastian Thomas Kohl
Bellapunta, Lorenzo Izzo
Gertrude, Elena Tereshchenko
Orner, Dielli Hoxha
Orchestra Internazionale díItalia e Coro del Teatro Municipale di Piacenza
maestro del coro Corrado Casati
Maestro concertatore e direttore Fabio Luisi
C ero e sottoscrivo. Solo su luisi ci andrei cauto, ha diretto con molta linearità e leggerezza….forse senza troppi colori, ma è stato il migliore in scena. Molto bene il buffo. Gli altri dall insulso al mediocre all indecente. Spettacolo di sconvolgente stupidità. Un inutile gay prode.