L’esecuzione della Clemenza salisburghese è stata tanto indegna ed indecente quanto, paradossale a dirsi, stimolante sotto profili non strettamente uditivi: non per scrivere, secondo il costume della Grisi, quanto peggio si potesse quanto per andare a ricercare se operazioni di auto od etero innesto fossero state compiute anche su questo titolo, come ordinario costume nel teatro. Che Mozart avesse scritto arie per capolavori altrui è noto, bastando la famosa aria “popoli di Tessaglia” da inserire in Alceste,altre volte Mozart inserì arie o numeri in propri titoli o modificò quelli che aveva predisposto per la prima. Le arie di donna Elvira o di don Ottavio inserite per la versione di Vienna esemplificano il primo caso, la famosa “Un moto di gioia” e “Al desio di chi t’adora” il secondo caso. E tanto per completare il quadro di Mozart non diverso dai coevi non possiamo dimenticare che lo stesso genio predispose variazioni per la parte di Cecilio o per l’arietta di Cherubino. Or bene l’esame dei libretti delle esecuzioni di Clemenza fra il 1804 e il 1819 ci dice che l’opera celebrativa di Mozart subì i medesimi trattamenti riservati, secondo la prassi del tempo, a indiscussi capolavori quali Orazi e Curiazi di Cimarosa o Giulietta e Romeo di Zingarelli, tanto per citare i casi più rilevanti.
E per una volta, come scritto nelle considerazioni sull’esecuzione salisburghese, è stato un altro festival austriaco (le Settimane della Musica Antica di Innsbruck) a superare la rassegna mozartiana per eccellenza, riproponendo nel 2013 la versione della Clemenza allestita a Vienna (Teatro di Porta Carinzia) nel 1804 sotto la direzione musicale di Joseph Weigl, già assistente del compositore in occasione delle prime assolute di Nozze di Figaro e Così Fan Tutte e della prima viennese del Don Giovanni. In quell’occasione si manifesta in maniera evidente la prima delle tendenze ricorrenti nei primi trent’anni di vita e circolazione del titolo, ovvero la modifica dei numeri solistici assegnati al protagonista. Fin dalle prime esecuzioni risulta evidente che il ruolo di Tito è non solo posto in ombra dalle grandiose invenzioni vocali e drammatiche che spettano alla coppia di amorosi regicidi (che, poi, non sono amorosi né regicidi, a ben vedere), ma caratterizzato da un’eloquenza marcatamente antiquata, connotata com’è dall’uso pressoché esclusivo (con l’eccezione dell’arioso “Ah no, sventurato”) di arie col da capo, laddove Sesto e Vitellia si esprimono con più moderne arie in due sezioni, che prefigurano già la successione di cantabile e cabaletta, struttura che utilizza anche Mozart, ma che sarà “la struttura” per il melodramma dell’Ottocento. Weigl assegna al tenore Antonio Brizzi una grande cavatina con il coro, “Splenda di Roma il fato”, che rielabora di fatto la Marcia (n.4 della partitura), e rimpiazza l’aria “Del più sublime soglio” con un duetto Tito-Sesto, “Incolpar tu non dovrai”, il cui materiale tematico riprende in parte l’aria soppressa. Analogamente, “Ah se fosse intorno al trono” rimane, ma profondamente rielaborata nella melodia e nella struttura, presentandosi come aria in tre parti: tempo di attacco (“Ah se fosse intorno al trono”), cantabile (“Al rimirar l’oppressa”) e sezione conclusiva in tempo rapido (“Grazie, pietosi Numi”). La struttura è già quella della grande aria del melodramma del primo Ottocento, almeno sino al Rossini napoletano. Nel secondo atto, infine, cade “Se all’impero, amici Dei”, ma prima della scena dell’interrogatorio di Sesto, il sovrano ha diritto a un’altra grande scena con il coro, “Non tradirmi in quest’istante”, anche questa un’aria in due sezioni (su musica di Giovanni Simone Mayr, che la riprese in seguito nel suo oratorio “L’innalzamento al trono del giovane re Gioas”), del tutto analoga ai rondò (mozartiani) di Sesto e Vitellia. L’arrangiamento di Weigl godette di una certa fama in Europa, dal momento che due anni dopo, a Lisbona, Domenico Mombelli lo riprese con alcune modifiche (venne tagliata “Ah se fosse intorno al trono” e analogamente caddero la prima aria di Vitellia e quella di Annio all’inizio del secondo atto). Insomma nel volgere di poco più di un decennio dalla prima rappresentazione Tito si esprimeva con strutture musicali tipiche del grande tenore baritonale in ruolo di cosiddetto antagonista o padre nobile.
Naturalmente la versione di Weigl richiedeva un tenore di prima sfera, vista la quantità e la qualità degli interventi solistici, e non sempre lo scritturato protagonista rispondeva a un simile profilo. È il caso delle esecuzioni londinesi del 1812 e 1813, che videro la diva Angelica Catalani nei panni di Vitellia, il tenore Diomiro Tramezzani come Sesto e Pietro Righi (specializzato nelle parti da caratterista) quale protagonista, ma solo di nome. Il Tito di Righi perdeva un’aria (“Ah se fosse intorno al trono”), ma soprattutto risultava “schiacciato” dalla presenza vocale della primadonna, che si “aggiudicava” due numeri destinati ad altre voci. Madama Catalani eseguì infatti “Deh prendi un dolce amplesso” in duetto con Annio (sostituendo Sesto – il brano venne spostato prima dell’aria di Sesto nel primo atto) e inserì nel secondo atto un secondo duetto con Sesto, che era poi “Ah perdona al primo affetto” (da Mozart destinato ad Annio e Servilia). In più, l’aria “Deh se piacer mi vuoi” venne inserita a metà del primo atto, mentre l’assolo di Servilia “S’altro che lagrime” fu posto ad apertura della seconda parte dello spettacolo (in questo caso la fanciulla spronava all’azione non più Vitellia, bensì Annio). Anche l’aria di Annio “Tu fosti tradito” venne “ricollocata” prima del terzetto “Se al volto mai ti senti”, con parole modificate (“Regnante tradito”) onde trasformarla da perorazione a soliloquio (“Torna di Tito a lato”, come già a Lisbona, cadde). Né questi londinesi furono gli unici casi in cui Sesto passò dal soprano (en travesti, in sostituzione del castrato originariamente previsto) al tenore: vedi l’edizione ancora una volta londinese del 1818, protagonista Crivelli, Manuel García come Sesto e Joséphine Fodor Mainvielle quale Vitellia. Gli stessi cantanti, poche settimane dopo, avrebbero ripreso nel medesimo teatro l’Elisabetta rossiniana, a palese testimonianza del fatto che l’estetica della “nuova opera” rossiniana poteva senza troppi problemi fondersi alla tradizione mozartiana, base del repertorio classico che andava strutturandosi. In questa divisione ed assegnazione delle parti siamo già oltre l’opera seria a cavallo fra Sette ed Ottocento, ma in una struttura che inaugurata da Mayr nella Medea in Corinto sarà assolutamente peculiare del Rossini cosiddetto napoletano.
Con le rappresentazioni scaligere del 1819 si torna a un grande tenore (Gaetano Crivelli) come Tito, affiancato dalle dive rossiniane Francesca Maffei Festa (Vitellia) e Violante Camporesi (Sesto). L’edizione si segnala più che altro per i tagli che interessano le parti di fianco (soppresse le arie di Annio, così come quella di Servilia e l’arietta di Publio), per il “riciclaggio” di “Ah perdona al primo affetto” per la coppia Sesto-Vitellia (la seconda coppia di amorosi viene, di fatto, riassunta in quella “maggiore”) e per le due grandi scene assegnate a Crivelli: ancora una volta “Splenda di Roma il fato” (con conseguente taglio di “Del più sublime soglio”) e, nel secondo atto, “Se all’impero, amici Dei” in una nuova versione predisposta da Ferdinando Paer per l’edizione al Teatro Italiano di Parigi (1816), versione che comprende una seconda parte (“All’arena omai si vada”) con intervento del coro e un dialogo della voce con il corno obbligato. Anche Tito, quindi, canta un grande rondò con strumento concertante, al punto che le tre parti di spicco possono dirsi, di fatto, equivalenti nel numero e nella complessità dei passi solistici a loro destinati (Vitellia perde la sua prima aria, ottenendo, però, di cantare il suo rondò per ultima, e ben sappiamo quanto profitto la signora Maffei Festa sapesse trarre da questa circostanza – vedi l’analoga posizione della sua gran scena nel Turco in Italia).
Tutti i casi presi in considerazione vanno nella direzione di “modernizzare”, ovvero adeguare alle convenzioni che andavano via via imponendosi nel teatro d’opera, il testo metastasiano, già “ridotto a vera opera”, come scrive Mozart, da Mazzolà. E questa operazione si estrinseca attraverso due procedimenti esattamente codificati: la sostituzione dei numeri solistici destinati a Tito (che diviene protagonista a tutti gli effetti, con arie che spesso e volentieri dialogano con il coro, secondo un procedimento tipico del teatro del primo Ottocento), e l’ampliamento dei ruoli di Vitellia e Sesto, a discapito della coppia “subalterna” Annio-Servilia (quest’ultima, soprattutto, diviene di fatto una seconda donna, allo stesso modo in cui Publio finisce per essere un basso comprimario). Gli unici brani mozartiani che sopravvivono intatti sono, ovviamente, i concertati: non solo perché difficilmente rimpiazzabili, ma in quanto brani di musica “moderna”, drammaticamente “nuovi” e, quindi, già perfettamente adeguati alle novità del melodramma serio del primo Ottocento. E questo non vale solo per i finali d’atto, ma anche per un passo come il terzetto “Quello di Tito è il volto”, che è peraltro l’unico punto del libretto metastasiano in cui Mazzolà trasforma in ensemble non un’aria solistica, ma un recitativo. Collocata strategicamente a metà del secondo atto, prima delle tre grandi espansioni solistiche (Sesto-Tito-Vitellia) che preparano il finale dell’opera, la pagina è strutturalmente indispensabile al dramma per musica, sia per lo sviluppo del tema delle apparenze ingannatrici (tutti i personaggi vogliono apparire diversi da quello che sono e non riescono a penetrare le reciproche simulazioni), sia per l’espansione lirica donata ai loro “mille diversi affetti”. Spostare o tagliare questa pagina avrebbe immiserito fatalmente il dramma. Pubblico e critica potevano non conoscere l’opera nella sua versione primigenia, ma avrebbero senza dubbio avvertito un “vuoto di senso” a questo punto dello spettacolo.
Emblematico risulta, sotto questo profilo, il caso della Fodor, che, in occasione delle rappresentazioni londinesi del 1817, era stata aspramente redarguita dai critici per avere anticipato la grande aria “Non più di fiori” a metà del secondo atto. Così il “Morning Chronicle”: E’ vero che il testo di quest’aria non fu scritto da Metastasio, ma le parole più importanti del recitativo sono opera sua, e da lui furono collocate alla fine dell’opera: e di certo un poeta, soprattutto un poeta del calibro di Metastasio, sa quale sia il punto indicato in cui collocare lo scioglimento del dramma! Ma se Metastasio si è rivelato ignorante nella sua materia, Mozart gli ha fatto buona compagnia, perché questo grande compositore e abile giudice dell’effetto, non si è azzardato a cambiare la posizione della scena. La signora Fodor afferma, a ragione, che il dramma è stato ridotto a due atti, mentre nell’originale era in tre. Questa riduzione è opera di Da Ponte (sic), su richiesta dello stesso Mozart (…). Ridurre un dramma non significa alternarne la struttura generale; lo schema, i personaggi, l’interesse rimangono gli stessi, e la posizione di tutto quello che non viene omesso deve necessariamente restare la stessa.
A duecento anni di distanza, le parole del recensore inglese costituiscono una risposta impeccabile, ed estremamente condivisibile, ai maldestri “taglia e incolla” salisburghesi.
Domenico Donzelli/Antonio Tamburini
Per approfondire:
Federica Faitelli, La clemenza di Tito: i primi trent’anni (saggio contenuto nel programma di sala dell’opera, Maggio Musicale Fiorentino 2003)
Emanuele Senici, ‘Adapted to the Modern Stage’: La Clemenza di Tito in London (Cambridge Opera Journal, marzo 1995)
Alcune precisazioni all’ottimo pezzo:
1) le arie da concerto di Mozart sono, appunto, da concerto: non sono finalizzate ad essere inserite in titoli altrui. Mozart – come in uso all’epoca – scrisse quei brani per essere eseguiti esclusivamente nelle “accademie”, ossia i lunghi concerti dell’epoca che includevano sinfonie, arie da concerto, concerti solistici (che erano il fulcro dell’esecuzione), musica da camera. Nello specifico “Popoli di Tessaglia” (come anche “Alcandro, lo confesso” o “Ma che vi fece,o stelle” o “Ch’io mi scordi di te”) è un’aria destinata all’esecuzione concertistica quindi non pensata per nessun inserimento nel lavoro di Gluck.
2) le variazioni dell’arietta di Cherubino “Voi che sapete”, non sono di Mozart, ma vennero scritte da Domenico Corri a Edimburgo nei primi anni dell’800. Anche in questo caso l’intento non era affatto teatrale: le Nozze di Figaro non vennero rappresentate in Gran Bretagna sino al 1812, successivamente alla realizzazione del Corri. Le variazioni dell’arietta hanno un mero scopo didattico mostrando una certa tecnica di variazione: del resto Corri scrisse un famoso – all’epoca – trattato sugli abbellimenti.
3) la figura e l’idea del compositore artigiano che varia, aggiusta e scrive a comando e capriccio dei divi appartiene più al periodo successivo e all’area italiana, quindi non è per nulla assimilabile il Mozart “ornamentatore” ad un Rossini, Pacini o compagnia briscola…ne cambiano i presupposti e le finalità.
4) l’operazione di Currentzis non può essere in alcun modo associata al modus operandi con cui – agli inizi del XIX secolo – venivano eseguiti lavori del secolo precedente. Per quanto fantasiosi ed arbitrari (a volte artisticamente discutibili, altre volte ben riusciti) furono queste rielaborazioni, mantenevano l’unità e la coerenza della destinazione teatrale. A nessuno tra 700 e 800 (ma neppure successivamente) sarebbe saltato in mente di unire e mescolare musica sacra con musica operistica, men che meno con musiche massoniche (di tutt’altra destinazione). Questa di Salzburg segna un livello nuovo di scempio, una fesseria ed un’idiozia elevate a sistema in un cortocircuito insensato che risponde solo ai capricci di un direttore che si crede un nuovo messia, agli annebbiamenti lisergici di un regista che non ha più nulla da dire da almeno 15 anni, ed alla buona disposizione di una non piccola schiera di gonzi che ‘sta roba si sono sorbiti e hanno pure pagato.
Grazie a Duprez per le precisazioni, anche se (punto 1) alcune di quelle che oggi (magari impropriamente) ricordiamo come arie da concerto nacquero proprio come arie alternative o aggiunte (vedi punto 3), ad esempio “Vorrei spiegarvi oh Dio” (K 418) e “No che non sei capace” (K 419), predisposte per una ripresa viennese del “Curioso indiscreto” di Pasquale Anfossi e destinate ad Aloysia Lange, cognata del compositore. Analogamente “ad personam” sono le arie alternative di Susanna, scritte per Adriana Ferraresi Del Bene, prima Fiordiligi (che io sappia nessuna esecutrice, salvo Cecilia Bartoli, le ha riproposte in tempi recenti nell’ambito dell’esecuzione dell’opera, ed è un vero peccato).
Sì vero: alcuni brani effettivamente sono arie sostituitive, particolarmente quelli per opere buffe