E dopo l’audio, testimonianza eloquentissima di un prepotente bisogno di collocare al centro della scena non Mozart e neppure Metastasio (del povero Mazzolà nessuno si cura), ma gli artefici di questo “bel” progetto pseudoartistico, implacabile giunge il video della Clemenza salisburghese a confermare, punto per punto, le impressioni già condivise con i lettori. In primis quella riguardante la drammaturgia, che non viene affatto ripensata e neppure potenziata, ma semplicemente disattesa, con marchiani strafalcioni (non sappiamo se dovuti a ignoranza, menefreghismo o svalutazione del testo di partenza) che generano effetti comici, anziché stranianti. Tanto per cominciare, il popolo è composto da profughi (sono i reduci delle devastazioni del Vesuvio? l’abbigliamento in stile Caritas indurrebbe a identificarli, piuttosto, come i rappresentanti di una remota provincia, deportati a Roma), quindi Sesto e Servilia, “selezionati” durante l’ouverture per entrare a far parte dell’entourage di Tito (l’intera classe dirigente ha la pelle nera, tanto per “colpire la borghesia”, almeno quella che non abbia mai disto il film “Deep Impact”, con Morgan Freeman che sostiene il ruolo del Presidente degli Stati Uniti, il tutto dieci anni prima dell’inizio dell’era Obama), non sono affatto “figli di Roma” e dunque non appare plausibile, da un lato, la scelta di Tito di elevare la ragazza al soglio imperiale, dall’altro, che Sesto possa essere scosso dai rimorsi, soprattutto perché il regista gli impone di declamare il grande monologo del finale primo (“Oh Dèi, che smania è questa”) minacciando il sovrano con una pistola e sparandogli al torace giusto prima di attaccare “Deh conservate, oh Dèi”. Da quel momento viene meno qualsiasi collegamento con il dramma originario, anche perché Sesto è palesemente l’autore materiale del regicidio e l’agonizzante Tito trascorre tutto il secondo atto inchiodato a un letto di ospedale, finché, durante il sestetto finale, inizia a disattivare in perfetta autonomia (anche qui, in modo davvero plausibile) le apparecchiature che lo tengono in vita, fino a cadere morto. Fin qui l’idea, povera, banale e maldestramente abbozzata. Poi c’è la realizzazione, che ricicla il ciarpame del vecchio teatro di regia anni Settanta fondendolo con il peggior kitsch di derivazione televisiva. Abbiamo così gli attentatori che confezionano giubbotti al tritolo (ne indossa uno anche Sesto, anche se gli sarà perfettamente inutile), i profughi che recano fiori e oggetti votivi sul luogo dell’attentato (manco fosse morta Lady D), le solite tristi sculture di plexiglas che dovrebbero evocare non si sa che cosa, Servilia abbigliata come Sandra Dee e Vitellia che sfoggia mise degne di Joan Collins in Dynasty, mentre Sesto canta la sua grande aria del primo atto con il clarinettista che gli si contorce accanto, un po’ come De Niro con la Minnelli in New Tork, New York (ma l’effetto è assai meno piacevole alla vista e anche all’udito). Quanto poi agli “inserti” voluti dal direttore d’orchestra, a quanto già detto posso solo aggiungere che interpolare un qualsiasi pezzo fra il terzetto “Vengo… aspettate… Sesto!” (qui concluso dalle urla lancinanti di una Vitellia che sembra condotta al macello, vista la foga con cui si lamenta) e l’attacco del finale primo dimostra una totale incapacità di comprendere che fra i due momenti musicali non può esserci discontinuità, come nota Giovanni Carli Ballola quando scrive, con riferimento a queste pagine, della “climax d’ininterrotta tensione drammatica” che spezza “le barriere interposte tra i numeri musicali di un’opera a pezzi chiusi”. Distruggendo l’arco musicale e drammatico creato dai due pezzi (dalle due azioni continue e conseguenti che descrivono, dalle due differenti e in fondo identiche condizioni di solitudine e ineluttabilità che le governano), l’intero effetto si immiserisce. Non che questo sia un problema che possa tangere i geniali “creatori” salisburghesi. Quasi dimenticavo: i personaggi, per esprimere disperazione (come Vitellia nello scempiato terzetto), roteano gli occhi e alzano le braccia al cielo, per poi mettersi le mani nei capelli, mentre il coro si butta in ginocchio. Nelle recite all’oratorio c’è più fantasia.
10 pensieri su “Fratello streaming. Clemenza di Teodor, atto secondo: staccare la spina.”
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….avranno il coraggio di pubblicare il video completo? No comment.
Certamente sì. In ricca confezione regalo. La classica mer*a col fiocco.
Sellars ormai è l’ombra di sé stesso: vive una pensione lisergica a cui tutto viene concesso. Replica da anni lo stesso conzept, applicandolo a qualsiasi cosa ( ne sono esempio le due demenziali messinscena delle passioni di Bach a Berlino). Solo roba per stupire gli ingenui.
ingenui leggi gonzi e coglioni….
Ma come fa quel povero clarinettista a suonare corcato a terra? O che il Currentzis fa fare le prove ginnico-contorsionistiche ai suoi orchestrali prima di assumerli?
Quanto a gonzi, coglioni, ingenuti, stupidi e sordi (in buona o mala fede, secondo i casi), invito a leggere ciò che hanno scritto sul sito di Avant Scène Opera circa l’edizione in DVD dell’orribile Turandot scaligera di 2 anni fa, esaltata come edizione degna di “Révérence”. Aho! a leggere quel che scrivono mi sembra un’opera diversa da quella che (per poco, ma quel poco mi è bastato) ho avuto la disgrazia di sentire!
cfr. http://www.asopera.fr/avis-turandot-r747.htm
Udite udite!! Sul Corriere della Sera di oggi, dopo il trionfo della Clemenza di Tito, il caro Teodoro a Salisburgo 2018 dirigerà Idomeneo e Le nove sinfonie di Beethoven e nel 2020 Tristano….mi chedo con che orchestra o ci vorrà far credere che nella Pastorale all’epoca di Beethoven era concessol’uso del fortepiano, chitarroni e tiorbe???? Siamo allo sbando….evidentemente Sony Bmg ha molto potere sui “direttori” artistici
Sì, con Cencic a fare Isotta.
Beh dai…di controtenori c’è l’imbarazzo della scelta! Magari la Bartoli come Brangania.
Domingo farà König Marke
E tanto per continuare il tema registico die profughi, il primo atto sarà ambientato su una nave di una ONG