Una delle belinate più grosse, che mi tocca vedere e sentire da tempo è la gioia e l’ebbrezza, che accompagna direttori d’orchestra, studiosi e proni critici circa la conquista della liricizzazione di Aida ritenuta coma la conquistata aderenza alla volontà dell’autore. Alla parola liricizzazione di Aida personalmente inorridisco considerandola un’autentica impostura storica, che nella sua genuina spontaneità la parola ligure ben esemplifica.
Poi subito dopo mi vedo frutto della liricizzazione una Aida con fisico adolescenziale, tette al vento, il bustino semi slacciato, che si rotola sul palcoscenico come fosse Manon a san Sulpizio o che ancheggia come Nedda. Aida richiede vocalmente voci importanti e monumentali, che mal si conciliano con il fisico macilento di una sedicenne.
Falso storico, sfondone musicale dettato solo ed esclusivamente dal fatto che oggi una Aida, che vanti le doti vocali di una Price o di una Arroyo, per citare le ultime autentiche voci da Aida non si trova più; per tacere, come pure un Radames, che sappia scandire i recitativi ed essere un guerriero anche un po’ carrieromane ed eseguire, come si deve, le iperboli (smargiassate ?) che lo spartito e Verdi impongono, vedi per restare all’tesempio più famoso il “sacerdote io resto a te”, che chiude in maniera tanto epica quanto fulminea il terzo atto. Proprio quel terzo atto che i “rerum novarum cupidi” immaginiamo come una sorte d san Sulpizio egiziano, anticipato modello di intimistiche dichiarazioni d’amore fra giovani amanti in soffitte parigine o in lande desolate.
Allora in primo luogo pesiamo l’opera nella sua genesi ossia nata per celebrare un’impresa epica nel suo genere e di importanza economica storica quale l’apertura del canale di Suez. Quindi un’opera celebrativa. Nessun titolo di Rossini, Meyerbeer, Auber, Halevy sino a Gounod e mettiamoci pure Massenet, appartenente al cosiddetto grand-opera ebbe origini apertamente celebrative. E per tali circostanze il genere importava anche la drammaturgia e l’allestimento. Aida, con buona pace degli esegeti non prevede il grandioso alla sola scena del trionfo, ma anche al primo concertato del primo quadro del primo atto, alla scena del tempio di Vulcano con la consacrazione del condottiero, che richiama le grandi scene di tempio e sotterraneo di cui l’opera italiana, a partire dagli Orazi e Curiazi sino all’Ernani, era maestra, per tacere, poi, del primo quadro del quarto atto dove le tribolazioni di Amneris decampano da qualsivoglia intimismo per assurgere a dramma regale e pubblico ed anche la scena della morte dei due amanti è accompagnata da un lugubre quanto solenne rituale all’interno del tempio. Se, poi, consideriamo i numeri di danza nessun melodramma ne vanta ben tre ossia quelle del tempio di Vulcano il divertissment dei moretti nel boudoir di Amneris e le grandiose danze del trionfo. Tutto questo decampa da una storia intimista d’amore quale Faust, Romeo, Manon, Boheme ovvero il melodramma post verdiano.
Cosa rimane di autenticamente intimista l’invocazione di Aida alla fine dell’aria del primo atto, che canta lo strazio ed il contrasto della principessa etiope, i cieli azzurri e, per certi versi, il duetto che sarebbe d’amore, ma che è, però, inficiato dall’ obbligo di estorcere a Radames i segreti militari e per certo il duetto finale. Poco e sopratutto limitato alla protagonista, perché gli altri sono personaggi nobili, aulici come i personaggi del grand-opéra; non dimentichiamo che nella prima sezione del duetto del Nilo il clima è tutt’altro che amoroso ed intimistico.
Se esaminiamo qualsivoglia titolo della produzione meyerberiana tutti gli innamorati hanno momenti che possiamo definire intimi, ma altrettanti pubblici e solenni, che nulla hanno a che vedere con il lirismo. Esempio banale il duettone degli Ugonotti sarà anche intimista, ma nella parte iniziale i due innamorati si scontrano parlando di religione e di conflitto religioso, Selika nell’aria del sonno è sognante ed intimista, ma nel finale quarto è regale e canta e pensa da regina. Non sono quei personaggi grisette e studentini innamorati, che popolano la Parigi di Puccini, Charpantier e Massenet.
Forse la verità, al di là della pubblicità, del desiderio e della necessità di creare l’evento è assai diversa.
Aida è e resta sotto ogni profilo un’opera grandiosa e non solo per le scene corali, ma perchè i personaggi sono chiamati a cantare sentimenti grandiosi ed oggettivi, come compete da sempre al personaggio tragico. Il naturalismo ed il verismo sono molto lontani da queste situazioni e lo sono particolarmente nel caso di Aida dove il grandioso ha preponderanza.
Il lirismo non è certo cantare piano e pianissimo perché la dinamica non l’ha inventata né Puccini né Massenet per essere chiari i colori, le smorzature fanno parte del saper dire del servire l’autore e dell’adeguarsi alle esigenze dello spartito, che prevedono, appunto, piani, pianissimi, smorzature, forti e fortissimi. La dinamica sfumata, il passare dal forte al pianissimo non è prerogativa di personaggi targati fine ottocento.
Solo che l’accento, la scansione dei personaggi del lavoro verdiano sono ben diversi da quelli, che seguiranno di lì ad un paio di lustri in terra di Francia e poi italica e la liricizzazione è un interessato fraintendimento.
Abbiamo allegata a questa considerazione una serie di ascolti tutti o quasi a 78 giri non perché i 78 giri siano migliori in assoluto, ma perché sono più aderenti alle esigenze dello spartito e spesso ad onta delle registrazioni frammentarie, penalizzate dai tempi dei dischi dell’età della pietra, aderenti alla poetica verdiana. A solo titolo di esempio Ester Mazzoleni e Giannina Russ al di là delle differenti scelte interpretative e peculiarità vocali non fanno mai dimenticare che Aida è “una figlia di regi” anche quando soffre e piange. I pianissimi eterei di Giannina Arangi Lombardi non sono quelli di una Farneti o di una Cervi Caroli, nei panni di Mimì o di Adriana, perché sono i suoni di una cantante, che deve affrontare lo scontro con voci sontuose come quelle di una Minghini Cattaneo o di una Stignani o sedurre Radames dotati della voce ampia, sonora e penetrante e dall’accento scultoreo e plastico di cantanti come Merli o Pertile. L’esecuzione dello scontro fra Amneris e Radames per l’arte di Karl Jorn e Margarete Arndt-Ober è esemplare di come si possa essere cantanti di gusto, sobri e contenuti senza venire meno alle esigenze di accento aulico e scandito e di nobiltà nel rispetto di un accento che appartiene al genere grandioso, che può essere praticato senza eccessi e senza cadute di gusto. Proviamo ad immaginare l’inadeguatezza prima interpretativa che vocale davanti ai personaggi di voci come quelle liriche di Emma Carelli, Geraldine Farrar, Rosina Storchio, Giuseppe Anselmi, Dmitry Smirnov, Leonid Sobiniv ossia di alcuni fra i più accreditati interpreti dei titoli post verdiani e cantanti che, per certo, hanno fatto la storia dell’intepretazione operistica, ma post verdiana.
rosvaenge – huni atto del nilo
ermolenko duetto nilo completo
de frate signorini duetto nilo
jorn arndt ober duetto atto quarto
minghini cattaeno pertile duetto atto quarto
poli randaccio inghilleri duetto
zenatello mazzoleni duetto seconda parte
zenatello mazzoleni duetto finale
duetto finale arangi lombardi merli
duetto finale martinelli ponselle
benvenuto franci entrata amonasro
ma Voi avete letto il racconto di Giovannino Guareschi sul tenore Franco Santalba esordiente Radames al Regio di Parma ?
rende benissimo l’idea di come deve essere.
a Meli è mancato l’intervento ( eufemismo ) di Don Camillo
un caro saluto
Franco Santalba alias Radames Gniffa di Ernani, nevvero? 😃 Eh…ne servirebbero di interventi Don Camillo Style…e non solo nei confronti dei tenori…