La Fenice si congeda dal pubblico prima della pausa estiva con alcune recite di Sonnambula nell’allestimento ormai entrato nel repertorio del teatro. È, quello veneziano, l’unico o quasi teatro in Italia a proporre ogni anno un certo numero di rappresentazioni degli stessi titoli (Sonnambula, Traviata, Barbiere di Siviglia, Bohème e così via) in allestimenti di proprietà del teatro e con cast in cui scarseggiano i grandi nomi (quelli che comportano, per il solito, grandi e sovente sproporzionati cachet). La formula dovrebbe garantire ricavi sicuri a fronte di contenute spese. La platea e soprattutto i palchi e le gallerie, scarsamente popolate in occasione della pomeridiana di sabato 8, rammentano che non sempre le formule funzionano a dovere.
Parlare di Sonnambula significa affrontare il genere operistico forse più arduo per l’ascoltatore e anche per l’esecutore moderno, quello semiserio. L’alternanza di patetismo e comicità (che è poi, nel caso in questione, garbato sorriso appena velato di sarcasmo, evidente soprattutto negli interventi del coro “A fosco cielo” e nel finale secondo), il richiamo al mondo arcadico, l’assenza di autentico conflitto (tutti i personaggi, persino la “perfida” e ipocrita Lisa, agiscono tutto sommato in buona fede, persuasi come sono della colpevolezza di Amina) sono altrettanti scogli, percepiti come potenziale fonte non di commozione, bensì di noia. L’allestimento di Bepi Morassi tenta di sopperire a questi presunti limiti postdatando l’ambientazione (siamo sempre in Svizzera, ma più o meno negli anni fra le due guerre mondiali) e infarcendo di gag ogni scena o quasi (a cominciare dall’entrata di Amina, che riceve un coup de fil, sceglie le partecipazioni ed esamina i manicaretti preparati per il pranzo di nozze). Il rimedio è ovviamente peggiore del male, dal momento che l’inserimento di sketch, movimenti sincopati dei coristi e amenità assortite nulla aggiunge alla vicenda, ingolfa il palcoscenico e distrugge l’atmosfera idilliaca e onirica, che di Sonnambula è l’autentica chiave, anche al di là dei finali d’atto. Senza contare che, in un milieu alto borghese anni Trenta, risulta quanto meno bizzarro che la gente non sappia che cosa sia il sonnambulismo.
Nella medesima direzione procede, o per meglio dire ristagna, la direzione di Fabrizio Maria Carminati, caratterizzata da sonorità ruvide e non di rado fracassone, scarsa precisione negli ensemble (con entrate del coro molto faticose nell’inno ad Amina predisposto da Alessio e al finale primo), tempi sovente slentati. Non siamo neppure al livello di buona routine, che la ripresa di un titolo rodato come Sonnambula dovrebbe garantire. A ciò si aggiungano i tagli, che interessano praticamente tutti i pezzi d’assieme e i numeri solistici (salvo quelli della protagonista). Privare del da capo passaggi come la chiusa della sortita di Elvino, la stretta del finale primo e la cabaletta “Ah perché non posso odiarti” (soprattutto laddove si disponga di un tenore in grado di eseguirli come si conviene) è una scelta per lo meno bizzarra.
Quanto al cast, risulta difficile distinguere, sotto il profilo timbrico e delle variazioni e inserimenti, la protagonista dalla seconda donna, cui peraltro vengono qui restituiti “pieni poteri”, ovvero l’aria al secondo atto e l’ensemble “Lisa mendace”, che la suddetta è chiamata a “tirare”. Irina Dubrovskaya ha una fresca presenza scenica e risulta molto attenta alla scansione del testo, soprattutto nei copiosi recitativi, ma la voce sembra trovare il giusto sostegno solo a tratti, così che la prima ottava risulta non molto sonora (seppure non maldestramente arrabattata come in tanti soprani pseudodrammatici di oggi, non ultimi quelli della scuderia pesarese) e in zona medio-alta compaiono, con il progredire della recita, suoni duri e non sempre intonati. Dotata di voce naturalmente meno ampia, Silvia Frigato (Lisa) stenta nella cavatina contenuta nell’introduzione e offre una prestazione più convincente nel resto dello spettacolo, anche se la scelta registica di relegare il personaggio in fondo alla scena nella prima sezione dell’aria compromette l’intelligibilità del canto e, di conseguenza, la riuscita dell’esecuzione.
Chi non ha problemi a farsi sentire è Roberto Scandiuzzi, che seppur usurato ha una voce ancora importante e una presenza scenica di tutto rispetto. Purtroppo il canto sconfina a più riprese (aria, scena del sonnambulismo al finale primo) nella prosa, tanto che la scelta di scorciare la cabaletta della sortita appare non solo giustificata, ma doverosa. Shalva Mukeria, già protagonista del debutto di questo stesso allestimento nel 2012 (e che, nell’occasione, non si era prodotto allo stesso livello della Lucia veneziana della stagione precedente o della memorabile Sonnambula genovese di alcuni anni prima), affronta in maniera un poco esitante la sortita e a partire dal duetto “Son geloso del zefiro errante” riesce, con voce di limitato appeal ma omogenea in tutta la gamma, a infondere al suo canto i colori della malinconia, che dell’innamorato e presunto tradito sono l’autentica sigla. Particolarmente impressionanti il finale primo, con la struggente melopea “Voglia il ciel che il duol ch’io sento” cui fa seguito l’impeto davvero tragico del “Non più nozze”, e gli interventi alla scena conclusiva, in cui il tenore georgiano riesce a esprimere in maniera compiuta la disperazione che latita nella pur corretta esecuzione della primadonna. Un Elvino forse in difetto di languore, ma una prova comunque impressionante, che ci auguriamo di risentire (possibilmente non fra altri cinque anni…) nei nostri teatri.
Un pensiero su “Sonnambula a Venezia”
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Mi fa piacere leggere una buona recensione sul tenore Shalva Mukeria, perché sempre alla Fenice, nell’edizione del 2012 con la Pratt, era alquanto in difficoltà. Visto che amo la voce di questo tenore ed ero rimasto alquanto deluso, sono felice che si sia ripreso.