Nell’allestire Le Prophete le difficoltà, come si può immaginare, non sono poche. Non solo è necessario disporre di una primadonna capace di incarnare la vocalità spettacolare del ruolo di Fidés tramite, da sempre propria solo delle più grandi e vocalmente dotate virtuose della storia del canto, ma anche di un soprano che sappia passare dal canto di agilità del I atto allo slancio richiesto nel terzetto dell’atto finale, e, non ultimo, il tenore protagonista.
Il ruolo di Jean de Leyda potrebbe sembrare all’apparenza la parte più semplice da scritturare, magari basandosi sul fatto che fino a qualche decennio fa si poteva fare leva su tenori drammatici avvezzi a Manrico e Otello, anche se mai purtroppo vi arrivarono tenori come Tucker e Corelli, che in fondo avrebbe trovato in Jean un ruolo a lui più consono del Raoul di Huguenots, forse a volte impossibilitati dal loro bagaglio tecnico a rendere tutte le richieste dello spartito in termini di espressività, mentre ora, sparite quel tipo di voci e di cantanti, e in nome di una finta aderenza allo spartito, normalmente spacciata come scelta filologica, come nella recenti produzione di Essen e Toulouse e quella futura di Berlino, ci si rassegna a scritturare tenori leggeri, per natura e tecnica impossibilitati a rendere le caratteristiche peculiari del personaggio.
La vocalità di Jean de Leyda si discosta in parte da quanto Meyerbeer scrive fino a quel momento, dimostrandosi una volta di più attento all’evolversi della vocalità, oltre che precursore dei caratteri musicali e vocali che diventeranno sempre più comuni nelle opere dell’epoca. Alcuni elementi come il canto di agilità o le incursioni estreme nel registro acuto sono minori o fortemente ridotti rispetto al passato, per inciso la parte di Jean prevede un solo oppure nel II atto che faccia salire la voce al re, nel finale dell’aria “Pour Berthe”, mentre la tessitura gravita principalmente nella zona centro acuta della voce, con frequenti incursioni nella zona del passaggio, in cui è richiesto al protagonista di saper cantare a fior di labbro e passare di continuo dal forte al piano e al pianissimo, ma è richiesto anche lo slancio e soprattutto l’ampiezza necessarie a cantare e fraseggiare sull’orchestrale della scena finale del III atto, culmine “Roi des cieux” insieme al coro, così come nella scena della cattedrale e nei couplets finali, dove è richiesto grande slancio.
L’indulgere nella zona del passaggio, dove Meyerbeer richiede, come già anticipato, che la dinamica sia sempre molto varia, è una tipica caratteristica della vocalità dei tenori dell’era post Nourrit e post Duprez, la cui influenza sull’evolversi della vocalità tenorile dell’epoca è chiara nel ruolo di Jean de Leyda come in altri coevi, nonostante in origine Meyerbeer si fosse opposto alla scrittura del tenore poiché declinante, favorendo piuttosto le ipotesi di Gaetano Fraschini e di Mario, che infatti fu il tenore della prima ripresa a Londra in compagnia della Divina consorte nei panni di Fidès, giungendo infine a scegliere per la prima Gustave-Hyppolite Roger, che le cronache del tempo lodavano appunto non solo per la figura elegante e per le doti attoriali, ma anche e soprattutto per la chiarezza e la purezza dell’emissione, insieme alle capacità dell’interprete musicale, caratteristiche comuni anche agli altri citati modelli tenorili presi in considerazione da Meyerbeer nelle fasi di scrittura dell’opera, interpreti tutti famosi per la capacità di poter essere eroici e poetici al tempo stesso, eccellendo sia in scene ad alto tasso eroico, come in quelle di invettiva, così come in quelle drammatiche e di amoroso, dove la linea di canto deve essere quanto più poetica e sfumata possibile, come si richiede ad un vero eroe romantico.
Voci leggere e cantanti tecnicamente incompleti sono dunque impossibilitati a rendere la complessità di personaggi simili, come dimostrato da recenti produzioni di altre opere del compositore tedesco, poiché impari alle richieste tecniche e soprattutto alle esigenze espressive della partitura. Per avere un esempio di come debba esprimersi vocalmente un grande Jean de Leyda, nel pieno rispetto dello spartito e della vocalità, dobbiamo dunque tornare ancora una volta ai 78 giri, che proporremo ancora nei prossimi giorni, facendo riferimento a cantanti che potevano essere compiutamente Jean de Leyda e Raoul de Nangis così come Tristan e Otello, sapendone restituire la vocalità privilegiando in egual misura sia il lato eroico che il canto sfumato, come nel caso di Jacques Urlus, di cui si apprezza la morbidezza dell’emissione e l’ampiezza, come si ascolta nella scena del III atto, ma anche di Ivan Yershov, che esegue alla perfezione i passi vocalizzati discendenti in “Pour Berthe”, mantenendo il suono sempre raccolto e sonoro, allo stesso modo nello slancio dei couplets finali, dove il suono rimane sempre brillante e pieno ad ogni altezza, e di Antonio Paoli, cantante dalla grande dote vocale applicata ad una grande e completa tecnica di canto, che gli consente di essere eroico senza essere mai approssimativo o generico, permettendogli invece di indugiare anche in qualche rallentando proprio della tradizione esecutiva dei grandi tenori di fine Ottocento e dei grandi esecutori dei protagonisti del Grand Opéra.
Un pensiero su “Qualche piccola riflessione sulla vocalità di Jean de Leyda.”
Lascia un commento
Devi essere connesso per pubblicare un commento.
Ma almeno un cenno a Gedda sarebbe stato doveroso, no? E’ al momento insuperato (78 gg. compresi). Se non c’è accordo su questo… (ma spero proprio ci sia!)