E dopo i tiepidi applausi del Rake, l’uragano di consensi, con battimani ritmati, acclamazioni, risate e ogni altro vivace segno di approvazione che, al termine delle tre ore di spettacolo, ha accolto Erismena. Proposta nello scrigno del settecentesco Théâtre du Jeu de Paume, l’opera di Cavalli ha dimostrato che anche un’opera sconosciuta può interessare, avvincere, persino, nella parte conclusiva, infiammare il pubblico. Il merito è, in buona parte, del testo, quasi del tutto dimenticato (anche dagli addetti ai lavori): il linguaggio, poetico non meno che musicale, anticipa Haendel (Agrippina e Serse, soprattutto) e il Mozart del Ratto dal serraglio (anche per l’ambientazione “esotica”) e sorprende per la disinvoltura con cui fonde dramma, malinconia e farsa, tra maliarde che tengono sulla corda tre spasimanti, fanciulle in abito virile, scene “di catene”, attentati e agnizioni che sfidano il ridicolo e lo sconfiggono, a tal punto risulta travolgente l’invenzione melodica, soprattutto in un terzo atto di sospesa disperazione e struggente “ritorno all’ordine”. L’opera non è proposta in versione integrale (anche perché parte della musica, tra cui quella del prologo e dei balletti previsti alla fine degli atti, risulta perduta), ma i tagli sono gestiti con accortezza da Leonardo García Alarcón, che alla testa della sua Cappella Mediterranea imprime alla narrazione un ritmo travolgente e ricava da un ensemble quasi cameristico (poco più di una decina di esecutori) sonorità sempre cangianti, anche per la scelta di dislocare occasionalmente i musicisti in punti della sala diversi dal golfo mistico (i violini collocati in galleria all’inizio del quadro conclusivo dell’opera).
Il gioco è perfettamente assecondato dalla regia di Jean Bellorini, che non ricerca stravaganze fini a se stesse, optando piuttosto per una semplicità tanto incantevole quanto mendace. Il palcoscenico è nudo (persino i tecnici sono “a vista”, nelle loro cabine) e, all’inizio dello spettacolo, la scena è occupata solo da due scheletri di fondale (con porta praticabile) e alcune sedie. Via via assume un ruolo sempre più rilevante un pannello che, da semplice “terreno”, diviene di volta in volta pavimento pensile, soffitto e parete di fondo. L’uso accorto delle luci (compreso un “plafond” mobile composto da lampadine di varie grandezze e fogge) permette di definire in un lampo (letteralmente) i diversi ambienti, e se alcune sottolineature sembrano ingenue o non necessarie (la disperazione della protagonista, flagellata da una tempesta suscitata da un paio di ventilatori, ancora una volta visibili sul lato della scena), altre intuizioni risultano davvero centrate (due su tutte: il travestimento di Erismena, presentato in maniera consapevolmente ambigua nel corso della sinfonia di apertura e svelato in tutta la propria sagacia al momento della rivelazione a Idraspe, e l’immagine che conclude lo spettacolo, con le lampadine che scendono fino a terra, e si spengono, una dopo l’altra, facendo scivolare la sala nel buio, mentre la musica sfuma quasi impercettibilmente). I variopinti costumi (con riferimenti neppure troppo velati al mondo hippie, salvo che per il re, in manto e corona, e per la nutrice Alcesta, in parodistico tailleur) si adattano bene a una vicenda improbabile quanto fiabesca.
Alterna, ma nel complesso accettabile, la compagnia di canto. Buona la sezione femminile, capitanata da Francesca Aspromonte, convincente e a tratti persino commovente Erismena, e da Susanna Hurrell, che nonostante qualche asperità in alto è un’Aldimira deliziosa nel suo ritrovarsi “femme fatale” quasi proprio malgrado. Note meno felici dal comparto maschile, in cui spiccano l’eleganza nel porgere di Carlo Vistoli (ma la sua prova risulta più pallida rispetto all’Ottone monteverdiano da poco affrontato con Gardiner) e la disinvoltura scenica (anche come breakdancer, nella sua aria di sortita), purtroppo non sostenuta da pari agilità canora, di Jakub Józef Orliński. In fondato sospetto di essere tenori non sfogati, più che autentici bass-baryton, Alexander Miminoshvili e Andrea Vincenzo Bonsignore (ottima la dizione, soprattutto quella del secondo), mentre Stuart Jackson nel ruolo en travesti di Alcesta riesce a costruire, con voce sgraziata (seppur potente, almeno nel minuscolo teatro provenzale), un personaggio in pari misura grottesco e tenero. Uno spettacolo, malgrado tutto, da ricordare, nella speranza che possa davvero contribuire alla rinascita di un repertorio che rimane, per ora, confinato alle manifestazioni di settore.
Di questo festival ad Aix mi era molto piaciuta la possibilità di ascoltare due opere (Rake’s e Erismena) entrambe con prima rappresentazione a Venezia – solo una a 300 anni di distanza dall’altra.
E sempre pensando al tempo, mi aveva colpito come una opera del 1655 sembrasse molto più vicina al haendel e mozart che, ad esempio, a monteverdi. E che stravinskij in certe scene guardasse indietro, alle forme e strutture di secoli prima.
Grazie della recensione, lo spettacolo è da ricordare, mi ha molto divertito e per gli interessati credo ad Aix stiano rappresentando tutte le opere di Cavalli ad intervalli di due anni, infatti ricordo che due anni fa davano “Elena”… potremmo sperare di continuare ad approfondire Cavalli tra due anni!
Resterebbe da parlare anche della regia di Carmen, fatta da Dmitri Tcherniakov. Parlavo con francesi scandalizzati per l’ambientazione in una specie di ‘sanatorio – parco divertimento’… a me è bastato vederne un pezzo per annoiarmi, ma devo dire che l’ho trovata piuttosto divertente, un inutile passatempo…
Elena credo sia stata proposta nel 2013, quindi il prossimo Cavalli provenzale potrebbe non essere prima del 2021… speriamo di non dover aspettare così tanto, soprattutto se c’è in vista un nuovo progetto con Alarcon e la Cappella Mediterranea (che l’anno prossimo affronteranno, altrove, nientemeno che King Arthur di Purcell).