Compito di un festival dedicato all’opera è, o per lo meno dovrebbe essere, quello di allestire titoli dimenticati, desueti o comunque meritevoli di più ampia diffusione. Per fare questo, è necessario che gli “ingredienti” assemblati siano, almeno in linea di massima, di prima qualità e rari a trovarsi nell’ordinaria programmazione teatrale. La Carriera di un Libertino non è certo un titolo poco rappresentato, visto anche lo scarso amore che gli addetti ai lavori, al di là delle solite dichiarazioni di principio, dimostrano per l’opera contemporanea (ammesso e non concesso che il Rake, proposto per la prima volta nel 1951, possa ancora definirsi tale). Certo però era legittimo attendersi uno spettacolo di buon livello, per il previsto debutto nel titolo di Daniel Harding e per l’allestimento dell’estroso Simon McBurney.
Infortunatosi il direttore pochi giorni prima dell’inizio delle prove, la bacchetta è stata consegnata al norvegese Eivind Gullberg Jensen, già rodato nel titolo. Purtroppo la circostanza, evidenziata dai press book, è risultata tutt’altro che evidente alla prova del palcoscenico. Al di là dei non infrequenti décalage fra le diverse sezioni dell’orchestra e fra buca e palco (difficoltà propiziate anche dalla scelta registica di dislocare i cantanti non solo su una ronconiana passerella attorno all’orchestra, ma in vari punti del teatro), la direzione si è distinta soprattutto per la qualità soporifera impressa a una partitura, il cui eclettismo è risultato sistematicamente appiattito da tempi sistematicamente slentati e un’uniformità di colori tutt’altro che soddisfacente. Predominano, sin dalla fanfara iniziale, sonorità esitanti, tenui (per non dire smunte), adatte forse all’idillio del prologo, insufficienti però a sottolineare il cambiamento di atmosfera impresso dall’entrata di Nick Shadow e dal progressivo inoltrarsi del neolibertino nella più autodistruttiva delle carriere. Alcuni momenti sono risolti in maniera più convincente (l’arrivo di Anne a Londra, il confronto fra le due donne nel corso dell’asta fallimentare), ma i momenti brillanti (gli interventi di Baba) e infernali (la conclusione della scena del cimitero) suonano slavati, mentre all’agonia di Tom succede senza scosse percepibili un epilogo garbato, che in nessun modo rende giustizia al sarcasmo del libretto e riesce a strappare al pubblico a malapena qualche applauso di cortesia. Molti spettatori avevano, per la verità, iniziato ad applaudire prima che i cantanti riuscissero ad attaccare l’ultima scena, quasi che l’opera potesse dirsi completa anche senza la settecentesca « licenza » prevista dagli autori.
Dal punto di vista scenico le cose sono andate meglio, sebbene neppure McBurney abbia corrisposto in pieno alle aspettative. Oltre la consueta idea di narrazione circolare (l’opera si apre e si chiude con il funerale di Tom), lo spettacolo si caratterizza per una scena assolutamente neutra (un cubo di carta bianca), riempita di volta in volta da proiezioni che evocano, con l’integrazione di pochi arredi, i diversi ambienti dell’opera. Bellissimo il gioco dei colori, che progressivamente riempiono il paesaggio agreste, e di grande effetto la lacerazione che l’entrata di Nick (inizialmente presente come ombra cinese) comporta nella scenografia, via via sempre più sgretolata dall’ingresso di telecamere di sorveglianza, un “doppio sogno” iniziatico (la scena di Mother Goose, divisa in due dall’intervento di Nick, dapprima party aziendale, poi esplicita orgia che forse avviene solo nella mente del protagonista), un enorme letto destinato ad accogliere l’apatica lussuria del protagonista, poi tutto l’inverosimile armamentario di Baba, finché l’ingresso di Tom in manicomio svuota nuovamente uno spazio definitivamente frantumato, emblema persino troppo scoperto della follia e della morte imminente. Il calibratissimo gioco delle proiezioni e la buona direzione di attori non evita, però, il rischio della monotonia. Analogamente a quanto avviene in buca, sul palcoscenico l’ironia stenta ad affermarsi e il tono complessivo risulta didascalico, moraleggiante (la sfilata degli amanti di Tom), incapace di compensare con la coerenza interna il sacrificio di aspetti essenziali, quale l’evocazione del mondo settecentesco e l’aspetto luciferino del personaggio di Shadow (qui ridotto a un « impiegato del male » in impeccabile completo da businessman, salvo poi rivelare tatuaggi « satanici » nel momento in cui deve ammettere la propria sconfitta). Non siamo certo ai livelli del peggiore teatro di regia di stampo tedesco, ma il risultato è, nel complesso, tutt’altro che entusiasmante.
Fra i cantanti il solo David Pittsinger (Trulove) risulta pienamente udibile nella vasta area del Théâtre de l’Archevêché, e benché tendenzialmente poco rifinita, la sua prova può dirsi corretta. Kyle Ketelsen ha intenzioni di interprete tutt’altro che disprezzabili, inficiate purtroppo da una voce di posizione piuttosto bassa, con suoni spesso morchiosi in zona centrale, mentre Paul Appleby (Tom), apprezzabile nel registro medio, emette acuti duri e forzati. Singolare, per non dire di peggio, la scelta di affidare la parte di Baba (scritta per un mezzosoprano) a un controtenore: Andrew Watts risulta al tempo stesso querulo e flebile, anche se l’evocazione della Divine dei film di John Waters risulta scenicamente irresistibile. L’autentico mistero della produzione è Julia Bullock, vocetta aspra alla Kathleen Battle, in difetto di appoggio e che chiude la sua aria con un sovracuto stonato e fischiante. Davvero impossibile pensare che non si sia riuscito a trovare qualcosa di meglio, magari cercando nei ranghi dell’Accademia del Festival, da cui peraltro proviene Evan Hughes, impegnato nel ruolo del Custode e in quello, aggiunto dall’allestimento, del secondo Nick Shadow (la regia impone al personaggio di spostarsi all’improvviso da un’estremità all’altra della scena, pertanto un secondo esecutore deve “soccorrere” l’interprete titolare, cantando in sua vece alcune delle frasi previste).
Grazie della recensione,
ho visto anche io lo spettacolo dal vivo la sera del 5 luglio, nella bellissima cornice del Théatre de l’Archeveche (che aiuta la regia di ogni opera che ho visto lì rappresentata più di quanto si possa immaginare, no?
Per me questa rappresentazione è stata la prima volta in cui ho ascoltato questa opera di Stravinsky, e mi trovo d’accordo con la recensione.
In particolare riguardo la regia e la scenografia, voglio confermare a Tamburini che il principale messaggio che mi è giunto è esattamente quello didascalico/moralizzante. Non mi turba particolarmente che l’ironia sia stata messa in secondo piano, anzi forse è la mossa giusta per evitare di banalizzare la trama e gli insegnamenti che credo stravinsky volesse passarci. Anche perché credo che al giorno d’oggi l’ironia sia molto mal compresa o mal declinata appunto nelle forme del teatro di regia di stampo tedesco.
Per quanto riguarda la musica invece l’ironia di stravinsky è chiarissima: ricordo di essermi messo a ridere durante la rappresentazione quando, durante la scena di Ann Truelove al primo atto, Stravinsky ripropone la forma aria+cabaletta in maniera sfacciata. Un momento di musica davvero molto bello.
Peccato per la coppia di protagonisti, Julia Bullock ha proprio una voce deludente, e anche Appleby niente di che (Appleby che aveva già cantato deludentemente Belmonte l’anno scorso quando ero andato a ny)
Mi aspetto altre recensioni da Aix? Ho visto anche Erismena di Cavalli e sarei curioso di sapere cosa ne pensate voi!
Ciao aurelio, di Erismena parleremo domani AT