Uno strano caso, o meglio il Caso, ha voluto che a brevissima distanza di tempo da Alberto Zedda sia scomparso Philip Gossett. I due furono per molti anni le anime culturali del festival di Pesaro e, prima ancora, della Fondazione di Pesaro. Poi le strade dei due maestri, e non in maniera silenziosa, si separarono. Posso dire che, da sempre, Pesaro e non solo l’anima culturale, ma anche quella commerciale, ha avuto poca simpatia per il mondo statunitense, fossero cantanti (capitanati dalla Horne) e poi per Philip Gossett. Non è, però questa la sede per esaminarne i motivi. E’ questa, invece, la sede per dire che anche a Philipp Gossett la rinascita di Rossini deve molto. Allo studioso americano si deve infatti la ricostruzione dello spartito di Tancredi, lo scioglimento dell’enigma dei vari finali inteso non tanto con riferimento al tragico o al lieto, ma con riferimento ai numeri che Tancredi cantava a guisa di gran scena. Anche l’operazione più complessa di ricostruzione di uno spartito rossiniano ossia il Viaggio A Reims porta la firma di Gossett. Gossett ammise per il Tancredi di aver musicato talune battute che fra fondazione e fondo Michotte di Bruxelles non erano state reperite. Circa interventi sulla reliquia di spartito del Viaggio poi confluito nel conte Ory non sappiamo, in quanto non narrato o non indagato se e quanto Gossett mise le mani.
L’operazione in se non è perniciosa ed illecita, ma lascia sempre qualche perplessità. Non già perché lo spartito e ciò che è andato in scena la sera della prima sia un intoccabile “arca dell’alleanza” fra compositore e pubblico, ma perché il dubbio che ci si sia fatti prendere le mani nella ricerca dello scooop o della operazione culturale (che poi ha un elevato tasso commerciale) non può non sfiorare il pubblico più attento e più agguerrito sotto questo profilo. Mi permetto alcuni esempi con riferimento al finale di Tancredi, nel suo dottissimo saggio Gossett inneggiava alla scoperta, ma ometteva di dire che la medesima destinataria del finale tragico Adelaide Malanotte, lo cantò una sola volta, sotto la contingenza della Quaresima che lo imponeva, preferendo quello lieto anche in riprese successive a quella ferrarese, come ometteva di dire che la ridda di arie finali era il segno del tempo, che preferiva o imponeva una scelta consona al volere della primadonna di turno. Non è certo un caso che né la Pasta né la Malibran cantassero quel che Rossini fra Venezia e Ferrara aveva scritto. Questo è quello che il grande filologo dovrebbe sempre dire. Del pari il grande filologo deve censurare, come ha fatto Gossett, certi inserti nell’Assedio di Corinto dell’accoppiata Sills-Schippers (mi riferisco all’aria del Ciro piazzata quale cabaletta all’incipit del secondo atto), ma dovrebbe anche dire che proprio quell’opera, nata da un remake di altra, ha sempre circolato grazie ad una serie di inserimenti alcuni dei quali ad opera dei medesimi esecutori della prima rappresentazione. E’ completezza e correttezza professionale; come è correttezza professionale spiegare che quello che fece Serafin nella Donna del lago è scorretto nel punto in cui decise di privare di una grande aria la protagonista, ma corretto ed addirittura accettato da Rossini inserire passi del Falliero. Sicchè il capitolo di Divas and Scholars intitolato “Le forbici di Serafin” è solo uno scoop dove prevale il messaggio pubblicitario su quello culturale.
Non è, mi sia consentito, un limite da poco quando si consideri che il testo offre al pubblico spunti di studio e riflessione, ma nessuna verità assoluta per il semplice motivo che il testo di Semiramide a differenza del Giorno del Parini si offre al pubblico non con la semplice operazione di lettura, ma con quella assai più complicata di rappresentazione in scena.
E che l’operazione del filologo non sia mai un gioco fine a sé, un semplice divertimento, avrebbe dovuto averlo ben presente l’illustre defunto allorchè “ricostruì”, ma sarebbe giusto eliminare l’iterativo, il Gustavo III di Verdi, opera che non vide mai la luce e rimase sempre e solo una serie di pensieri del compositore. Seguendo questa strada i duecento fogli espunti da Verdi nel proprio Falstaff, recuperati a Sant’Agata, contrari gli eredi, vedranno presto l’inserimento nello spartito e ciò contro la volontà dell’autore, che libero di far quel che voleva componendo il proprio estremo lavoro li espunse, o forse non li prese neppure in considerazione per la redazione finale.
Operazioni di questo genere ricordano il restauro di Carcassonne, che Violet Le Duc, trasformò nel castello di Cenerentola o nella scuola di magia di Harry Potter, sognando di dare corpo alle proprie teorie. Ed a questo eccesso, purtroppo, Gossett cedette anche quale autore di varianti. Le pernacchie, che colsero l’improvvida e tecnicamente improvvisata Renée Fleming quale Borgia scaligera lanciata nelle vette del pentagramma portano la firma di Gossett, autore anche della varianti di Norfolk predisposte nel 1991 per Blake, che richiamavano assai più la Barrientos o la Sills, che non Garcia, che pure di suo non era parco negli inserimenti. Anzi, il contrario.
La variante era una delle differenze fra Zedda e Gossett. Basta sentire che cosa ha predisposto il primo per il duettino di Semiramide-Arsace “Alle più care immagini” e che cosa il secondo. Il primo seguiva una idea musicale assumendo che le variazioni meno si notano, più belle sono, il secondo all’opposto più si sentono e più sconvolgono ritmo ed armonia più belle sono. Quando avremo il tempo di pubblicare e discernere varianti non rossiniane, ma coeve e di cantanti esecutori di prime rossiniane, si potrà vedere che la virtù sta nel mezzo. Le varianti si devono sentire, devono mettere in risalto le doti dell’esecutore, non devono fare a pezzi la pagina musicale. Un vero ballo di grazia, come la vocalità rossiniana, oggi persa e dimenticata nelle paludi romagnole e nelle steppe caucasiche.
I filologi musicali hanno sempre lavorato nell ottica…mi sia concesso il termine…paleografica, dimenticando troppo spesso che il teatro vive di esecutori. Inconcepibile per loro curarsi della vocalità , quale componente centrale dell’inverarsi della musica….e mi viene da dire che questa da una lato è la dannazione dell opera del presente, condannata per ignoranza somma di chi la gestisce, ma anche la sua fortuna perché quando i filologia scrivono di canto giungono alla soglia dell aberrazione, ed allludo a casi dotti come il volume Ermafroditi armoniche di cui abbiamo già fatto cenno, sino alle cazzate commerciali come il booklet di gossett al disco di Florez su rubini ove si è volutamente dimenticato delle descrizioni della. Voce del sommo tenore belliniano o del fatto che cantasse pollione. Imbarazzante il silenzio dei filologia sul falso storico dei falsettisti e di gran parte della costruzione baroccaro commerciale odierna. Anche per questo vizio profondo della filologia l opera è defunta irrimediabilmente. Attendiamo la storpiatura futura scaligera del Pirata…..basato sull edizione critica però !!!! A qualcuno gliene freghera qlcsa?