La “residenza” dei complessi diretti da Sir John Eliot Gardiner nei luoghi di Monteverdi, nell’anno in cui si celebra il quattrocentocinquantesimo anniversario della nascita del compositore, si è conclusa sabato scorso con l’esecuzione del Vespro della Beata Vergine nella Cattedrale di Cremona. Luogo di suggestione immensa, forse persino superiore alla Basilica di Saint-Denis e al Duomo di Pisa, giusto per citare altre due tappe del tour europeo del brano affidato alle cure del Monteverdi Choir (nei cui ranghi spiccavano diversi solisti uditi nella trilogia operistica alla Fenice) e degli English Baroque Soloists. Peccato che la disposizione degli spazi riservati agli spettatori all’interno della chiesa fosse tutt’altro che ideale, al punto che nelle navate laterali erano presenti posti da cui la vista del “palco” era praticamente nulla. Ma in fondo si trattava di un evento offerto dal Festival Monteverdi di Cremona ad amici, sostenitori e abbonati (ingresso per invito) e, come se non bastasse, l’intera chiesa è stata, in momenti diversi, teatro totale della manifestazione, dal momento che solisti di canto ed esecutori erano disposti, via via, sui pulpiti collocati ai margini della navata centrale e presso l’abside. La metafora teatrale è quella che permette di inquadrare al meglio l’interpretazione del direttore inglese, che completa, di fatto, l’avventura veneziana affrontando il quarto titolo superstite del catalogo monteverdiano. Il Vespro, concepito verosimilmente non in funzione di una specifica occasione liturgica, si presenta infatti come un vero e proprio oratorio dedicato alla figura della Madonna, un canto che ne glorifica la potente e misericordiosa clemenza, declinando brano dopo brano i diversi aspetti del carattere e della devozione mariana. Il contrasto fra i diversi blocchi sonori è accentuato dalla scelta di omettere le antifone in canto gregoriano, eliminando in questo modo qualunque transizione cerimoniale fra scene solistiche, concertati, cori e passaggi esclusivamente strumentali. La celebrazione di Maria è strettamente intrecciata, come nelle opere profane, a quella della Musica, capace di passare dal languore quasi carnale dei Concerti “Nigra sum” e “Pulchra es” all’incanto ultraterreno del terzetto tenorile di “Duo Seraphim”, dagli accenti di trattenuta solennità del Salmo “Dixit Dominus” alla maestosa espansione della “Sonata sopra Sancta Maria”, fino a quella fusione perfetta di monumentalità, slancio e dolcezza che è il “Magnificat” conclusivo. Contrasti e sintesi che sembravano riflettersi e moltiplicarsi nel multiforme splendore della prescelta cornice. Inutile forse, dopo quanto scritto nella cronaca veneziana, rilevare l’ottima prestazione dell’orchestra (al netto di qualche sbavatura di intonazione degli archi nell’Inno “Ave maris stella”) e del coro, dal suono tornito e compatto, che facilmente riscatta gli occasionali limiti dei solisti. Ricchezza di suono, meticolosa cura nella resa del testo poetico, tensione drammatica che non ha un cedimento lungo quasi due ore di esecuzione: il trionfo finale, davvero poco “da chiesa”, è ampiamente meritato.