La riproposizione dei tre titoli operistici di Monteverdi nel quadro del progetto internazionale voluto da Sir John Eliot Gardiner per celebrare i 450 anni dalla nascita del grande compositore, ha regalato a Venezia, unica tappa italiana, splendide giornate di musica. Sebbene non tutto fosse perfetto – del resto, come potrebbe esserlo ?! -, Gardiner con la sua compagine musicale, English Baroque Soloists e The Monteverdi Choir, la compagnia di canto e il suo team ha realizzato tre spettacoli di indubbia qualità permettendo agli ascoltatori di immergersi anima e corpo, un giorno dopo l’altro, nella musica di Monteverdi e nello spirito di un’epoca.
La compagnia di canto scelta da Gardiner non ha avuto molte punte di eccellenza, ma si è attestata su un livello medio globalmente più che positivo: i cantanti, per lo più giovani e stranieri, hanno curato molto la dizione (fondamentale in questo repertorio) e l’interpretazione (pur trattandosi di una versione semiscenica); non c’è mai stata la sensazione che gli interpreti non sapessero cosa cantavano, anzi, l’affiatamento, lo studio e l’impegno da parte di tutti sono stati evidenti e per questo meritevoli di plauso. Se nell’Orfeo e nell’Ulisse il cast si è rivelato felice per tutti i ruoli senza vistosi cali, nella Poppea, invece, la presenza di due interpreti deboli e acerbi nelle vesti di Nerone e Poppea ha inficiato negativamente l’esito della serata disinnescando, almeno in parte, l’enorme potenziale della drammaturgia monteverdiana. Ciò detto, pare doveroso dedicare qualche riga agli interpreti.
Krystian Adam, tenore, è stato un eccellente Orfeo, a suo agio tanto nel declamato che nella coloratura di Possente Spirto, vivace nei momenti di allegrezze dell’entrata in scena, dolente e adeguatamente tragico in seguito al decesso di Euridice; è stato anche un buon Telemaco. Lucile Richardot, mezzosoprano dal timbro androgino non privo di inflessioni nasali e gutturali a tratti discutibili, è stata una Messaggera sopra le righe ancorché accorata, ma soprattutto una Penelope convincente grazie a una lettura che ne faceva una matrona non lontana dall’essere una virago, quasi che la lunga assenza del marito l’avesse obbligata ad assumere tratti vagamente mascolini; la Richardot ha dato voce anche a un’Arnalta perfettamente riuscita scenicamente e vocalmente e, infine, a una Venere un po’ troppo mascolina. Il baritono Furio Zanasi, grande interprete di questo repertorio, ha mostrato di saper padroneggiare alla perfezione il recitar cantando e lo stile monteverdiano, nonostante la voce sia meno ricca e fresca rispetto al passato; il suo Ulisse è stato profondamente umano, sempre virile, persino eroico quando il caso lo richiedeva, il suo Apollo, invece, paterno e coturnato, risolti senza il minimo problema anche i ruoli minori di Soldato I/Liberto nella Poppea. Gianluca Buratto, tra gli interpreti più applauditi nel corso delle recite, ha saputo rendere con voce bella, rotonda e sana (vagamente più flebile negli estremi gravi) i ruoli di Caronte/Plutone, Tempo/Nettuno/Antinoo e Seneca. Marianna Pizzolato è stata un’ottima Ottavia, forte di una bella vocalità e di un bel modo si porgere sempre morbido e curato; più convincente come interprete nel ruolo di donna irata e smaniosa di vendetta piuttosto che come dolente donna di virtù. Il controtenore Carlo Vistoli ha ricoperto adeguatamente i ruoli di Umana Fragilità e Ottone, mostrando una vocalità interessante, ottima dizione e bel timbro; certamente avrebbe meritato il ruolo di Nerone. Silvia Frigato ha risolto brillantemente e con buona presenza scenica il ruolo di Amore in Ulisse e Poppea, e anche quello del Valletto. Anna Dennis è stata deliziosa nei suoi ruoli (Ninfa, Melanto, Drusilla/Virtù/Pallade), mentre Robert Burt è stato un Iro molto divertente e spigliato, e poi buon Soldato II.
Note meno positive per Hana Blažíková che, con la sua voce di soubrette un po’ debole e aspra, è stata sottotono come Musica/Euridice, più spigliata come Minerva/Fortuna e, purtroppo, assai deludente nel ruolo di Poppea, di cui non possiede né timbricamente, né interpretativamente la carica di sensualità e l’allure necessarie. Kangmin Justin Kim, controtenore meglio noto per aver imitato la Bartoli, è stato una Speranza senza sale e, soprattutto, un Nerone insufficiente alle esigenze della parte: l’interpretazione sopra le righe superficiale, nonché la voce poco ricca di sfumature che diventa fissa e assai fastidiosa salendo non hanno reso giustizia al personaggio. Francesca Boncompagni è stata più a suo agio come Proserpina e Damigella, piuttosto che come Giunone; corretta anche se forse troppo giovane l’Ericlea di Francesca Biliotti. Francisco Fernández-Rueda non è stato entusiasmante nei panni di Pastore I ed Eumete, Michael Czerniawski (Pastore III, Pisandro, Nutrice) ha una fonazione piuttosto sguaiata che era apprezzabile nella Nutrice, meno negli altri due ruoli. Senza infamia e senza lode anche Gareth Treseder (Pastore II/Spirito I/Eco, Anfinomo, Famigliari), John Taylor Ward (Pastore IV/Spirito III, Giove, Mercurio/Littore) e Zachary Wilder (Spirito II, Eurimaco, Lucano).
A più di vent’anni di distanza dalle incisioni per l’etichetta Archiv, Gardiner torna alle partiture monteverdiane con lo stesso complesso strumentale e un gruppo di esecutori, come allora, per la maggior parte non di origine italiana, ma il risultato non potrebbe essere più distante. Con gli anni il direttore inglese sembra aver concepito un approccio meno rigido al tema della filologia: ad esempio, per la Poppea, si passa dalla revisione di Thomas Walker e Peter Holman, che proponeva nuove versioni dei ritornelli, composte a partire dal basso cifrato del manoscritto napoletano, considerato fonte privilegiata ma in più punti corrotta, e sostituiva intere sezioni di mano non monteverdiana con altre, derivate da differenti opere del compositore di Cremona, all’edizione (che segue principalmente il manoscritto veneziano) di Clifford Bartlett, proposta peraltro in versione tutt’altro che integrale, come dimostrano i tagli nel primo monologo di Ottone, nella scena del Valletto e in quella dell’interrogatorio di Drusilla, solo per citare i principali. Idem per il Ritorno d’Ulisse, in cui il direttore inserisce (nella prima scena dei Proci) la sezione conclusiva del ballo concertato “Tirsi e Clori”, dal Settimo libro dei madrigali. Più che a un’ipotetica (e a stento ipotizzabile) “autenticità”, Gardiner sembra interessato, mai come oggi, alla verità drammatica del teatro monteverdiano, teatro di parola per musica nel senso più completo del termine, ché i suoi personaggi si manifestano in tutta la loro grandezza (e in tutta la loro meschinità) principalmente nel dialogo, che spesso assume le sembianze di un monologo spezzato. Ciò è particolarmente evidente nella Poppea, in cui Arnalta dà voce alle inquietudini della stessa Poppea (sempre meno sicura di sé e sempre più insofferente nei confronti della nutrice), Seneca appare come la voce della coscienza (sopita, “rinnegata”) di Nerone e deve egli stesso fare i conti con il rimpianto della vita (manifestato dai familiari) e con il proprio presagio di morte, dal momento che gli dei (Pallade, Mercurio) sono solo voci che provengono dalle gallerie della Fenice. Resta padrone della scena il solo Amore, cui non serve neppure minacciare Ottone nel momento in cui quest’ultimo attenta alla vita di Poppea, dal momento che è proprio il sentimento amoroso a impedire all’amante frustrato l’attuazione dei propositi di vendetta. Come Amore, burattinaio capriccioso che nel finale congiunge gli esitanti Poppea e Nerone, Minerva determina, nel Ritorno, non solo le azioni ma le parole dei mortali, mentre una corte divina algida e indifferente si contrappone a quella terrena di Itaca, dominata dal caos e dall’incostanza (frutto del dominio di Tempo, Fortuna e Amore). Nonostante le peripezie dell’eroe di Troia, l’autentica protagonista è Penelope, non prigioniera ma custode del proprio dolore, immutabile e indomabile come l’arco di Ulisse (qui assente e sostituito dal corpo della Regina), che solo nel duetto conclusivo testimonia, con la fine della propria attesa, la natura fragile e caduca della condizione umana. La stessa natura, fatta di entusiasmi folli ed eccessivi abbattimenti, caratterizza il semidio Orfeo, rimproverato dal padre Apollo per la mancata consapevolezza che “nulla qua giù diletta e dura”. Una visione, quella di Gardiner, di lucida e tesa disillusione, che non concede scampo e al tempo stesso si schiera dalla parte dei perdenti, siano il cantore Orfeo e la sua tenera sposa, la casta Penelope, l’ambiguo Seneca, l’iraconda Ottavia, o ancora il tormentato Ottone e la sventata, dolcissima Drusilla. Nessuna tetraggine in orchestra, anzi una cornice sonora di lussureggiante varietà, impreziosita dal timbro caldo degli archi, dalle voci pungenti dei fiati, dal mormorio delle tiorbe e dagli accenti imperiosi delle trombe, mentre il coro (spesso “rinforzato” dai solisti di volta in volta non impegnati nelle singole scene) accompagna le vicende con una presenza spesso muta, ma tutt’altro che inerte (anche nella cura delle controscene si percepisce il valore di una direzione d’attori di grande valore, esaltata dalla semplicità dei costumi e dalla nudità della scena). Compendiato in tre giornate di grande valore il teatro profano del divino Claudio, cresce, se possibile, l’attesa per l’appuntamento con la grande architettura sacra, il Vespro della Beata Vergine, che sabato prossimo sarà proposto, dagli stessi interpreti, nell’altra città del compositore, Cremona. Non poteva esistere omaggio più totalizzante a uno dei padri della musica moderna.
Ho avuto fortuna, il teatro la Fenice ha aggiunto una data ulteriore in cui è stato eseguito l’Orfeo e quindi ho potuto trovare un posto libero.
E’ stata davvero una bella serata di musica, come scrive David.
Ricordo a tutti che, in un giorno ottobre che non ricordo, dovrebbero essere eseguiti i Vespri nella basilica di San Marco!