Reduce dalla tre giorni veneziana, di cui ha riferito l’amico David, non pensavo che il ritorno alla routine della produzione teatrale nostrana potesse essere così sconfortante. Sbagliavo, perché quando un titolo di grande repertorio viene affrontato con una sconcertante sottovalutazione delle difficoltà che lo stesso pone, il risultato sarà necessariamente, in pari misura, imbarazzante e tedioso.
Cominciamo dal versante dell’imbarazzo con la non-regia di Lorenzo Mariani (nuovo allestimento, ovvio, ché i denari si trovano sempre in questi casi). Ambientazione postdatata (siamo, più o meno, a inizio Novecento), scena praticamente fissa (un interno nel castello), grossolane proiezioni video a simulare l’incombere delle forze della natura, svarioni non da poco (neppure un divano o una poltrona per la folla dei “nobili parenti” di casa Ashton, accorsi ad assistere alla sottoscrizione del contratto nuziale), tocchi che si vorrebbero grotteschi e sono solo ridicoli (lo sposino che arranca in scena ferito a morte, mentre Lucia, nel finale, penzola impiccata al soffitto). Il tutto senza che un gesto, uno sguardo discostino questa cosiddetta nuova produzione dai deprecati allestimenti a base di fondali dipinti e sontuosi costumi cinquecenteschi.
Sul podio Michele Mariotti, eterna promessa del repertorio belcantistico e assimilati, al debutto nel titolo e in predicato per riprenderlo al Covent Garden. Basterebbe il preludio alla scena finale, con gli attacchi sfalsati delle diverse sezioni dell’orchestra e i suoni spernacchianti degli ottoni, a rendere conto dell’arte del direttore musicale del teatro felsineo, successore, fra gli altri, di Chailly e Thielemann. Illuminanti in questo senso pure il coro dei cacciatori, anch’essi fuori tempo, le marcette da Offenbach che punteggiano gli interventi di Enrico e Arturo, la grevità dell’accompagnamento in un brano assolutamente esornativo come l’aria del prete (qui mutato in bodyguard), il frastuono della scena della torre. Si aggiungano a ciò i parchi (per non dire nulli) interventi nei da capo, incomprensibili per un direttore che si picchi di prassi esecutive. Il limite maggiore è però dato dall’incapacità di infondere in orchestra e di suggerire ai cantanti quei colori notturni, quella lancinante malinconia che di Lucia è la cifra caratteristica. Certo anche il direttore deve fare i conti, in primis sul palco, con risorse estremamente limitate sotto ogni punto di vista.
A parte Evgeny Stavinsky, la solita voce slava di un certo spessore ma piuttosto brada, impacciato nell’aria (perché ostinarsi a riaprire un taglio come questo, se l’esecutore non riesce a venirne a capo?) e decisamente più a suo agio nella rhesis del terzo atto, il trio protagonistico ha dato prova di una totale inadeguatezza, anche se al solito non mancano le circostanze attenuanti, che si trasformano però, a ben vedere, in aggravanti per il teatro. Nel dettaglio gli scritturati protagonisti, Irina Lungu e Celso Albelo (già interpreti, in questa stagione, di Rigoletto nel medesimo teatro e di Puritani nella provincia emiliana), convocati alla prova di Lucia (un carnet di impegni degni di una coppia Scotto-Kraus nel fiore degli anni) non si sono presentati, il primo fin dalle prove (rimpiazzato da Stefan Pop), la seconda con riferimento alla recita di martedì (radiotrasmessa), per improvvisa indisposizione e sostituita dal soprano previsto per il secondo cast. Giustizia vuole quindi che si incominci dal baritono, unico elemento superstite del cast originario. Non sono dell’avviso di Nazzareno de Angelis, che nelle sue memorie, evocando le stagioni del Colón di Buenos Aires popolate dai maggiori artisti dell’epoca, definisce la parte di Enrico di nessun interesse artistico e spiega come un Titta Ruffo fosse letteralmente ricoperto di denaro dall’impresario di turno per accettare il ruolo, neppure previsto dal contratto collegato alla stagione, tanto appariva “insulso”. Trovo anzi che il tormentato Lord Ashton abbia diverse occasioni (specie laddova si esegua la scena della torre) per imporsi e a tratti persino rubare la scena ai protagonisti. E’ però ovvio che un cantante, la cui voce risulta ovattata e fatica a passare l’orchestra, avrà difficoltà a far emergere il lato luciferino così come quello disperato del personaggio, soprattutto se le incursioni all’acuto (fin dall’aria di sortita) sono risolte con suoni ghermiti, duri, privi di proiezione. Che Markus Werba passi per un rinomato interprete wagneriano (e pensiamo a cosa sia l’orchestra di Wagner davanti a quella di Donizetti…) la dice lunga sullo stato dell’arte (pous ainsi dire) di quel repertorio.
Non ha invece problemi a farsi sentire Stefan Pop, ma la voce, priva di particolari attrattive sotto il profilo timbrico, è artificiosamente oscurata in basso e quindi faticosa nella zona medio-acuta, con un sistematico ricorso al falsetto nei tentativi di smorzatura e nei piani e pianissimi, tanto che la scena finale evoca, più che la “bella morte” emblema di un Napoleone Moriani, un decesso per asfissia. Con queste premesse non è neppure il caso di parlare di fraseggio e di impostazione del personaggio. Chi prova a dire qualcosa è Ruth Iniesta, già Sofia del Werther nel medesimo teatro e allieva dell’Accademia di Pesaro, dove ha partecipato al Viaggio a Reims dei giovani e cantato quale comprimaria nei titoli “maggiori” (come ha chiosato l’amico Nourrit, “da Albina a Lucia”). La voce è piacevole nel medium, anche se l’infelice fanciulla scozzese richiederebbe un soprano un po’ diverso da una soubrette adatta a Mozart e all’opéra comique, ma il modello preclaro dell’interprete, al netto degli esempi pesaresi, sembra essere Diana Damrau, imitata nei bamboleggiamenti, nella fatica del legato e nell’emissione stridula degli acuti, non impeccabili anche sotto il profilo dell’intonazione. Le va dato atto di essere arrivata non completamente stravolta dalla fatica (a differenza del tenore) alla grande scena finale, ma un’esecuzione a malapena scolastica, al netto delle pecche vocali, non giustifica il reclutamento in un titolo come questo in un cosiddetto grande teatro, neppure in secondo cast.
Gli ascolti
Donizetti – Lucia di Lammermoor
Atto I
Cruda, funesta smania – Renato Bruson, dir. Gianandreea Gavazzeni (1973)
Sulla tomba che rinserra – Luciano Pavarotti e Luciana Serra, dir. Peter Maag (1983)
Caro Tamburini,
lei deve avere una nascosta vena di crudeltà : perché fare ascoltare Bruson, Pavarotti e la Serra a chi ha dovuto ascoltarsi la Lucia bolognese ? Sunt lacrimae rerum.
Abbonato quarantennale al Comunale di Bologna ho dovuto subire il progressivo, inarrestabile declino di questo teatro, un tempo rinomato e comunque dignitoso. Penso che ormai, data anche la situazione finanziaria del Comunale, siamo arrivati alla fine: una fine che segna anche la morte della lirica a Bologna.
Anni fa, in una cittadina della provincia, un medico melomane inventò l’opera in play back. Insieme ad altri appassionati addestrò una equipe eccellente nel mimare, con precisione incredibile, il canto, e mise in scena, con scenari di fortuna, recite in cui la musica era affidata alle migliori registrazioni esistenti, e la recitazione era demandata alle comparse. Successo incredibile e eccellenti risultati sul piano della divulgazione musicale. Temo che dovremo ripescare quella iniziativa.