Domenica 21 maggio ho assistito, al Teatro Regio di Torino ad una recita del Flauto magico di Mozart, ripreso dopo solo tre anni dalla precedente edizione, con il medesimo piacevole allestimento di proprietà del teatro torinese (produzione originariamente palermitana), il che dovrebbe significare che l’opera e l’allestimento erano stati graditi (infatti il brutto, insulso, risibile, precedente allestimento con l’assurda riscrittura dei dialoghi ad opera di Baricco è nato ed è subito morto sul nascere).
Pure stavolta le cose, nel complesso, sono funzionate, anche se non ci siamo trovati di fronte a nulla di memorabile, ma solo ad uno di quegli onesti prodotti di teatro operistico che, dato quel che si vede e si sente oggigiorno, si lasciano vedere e sentire senza provocare danni alle coronarie degli spettatori.
Dell’allestimento di cui sopra (regia di Roberto Andò ripresa da Riccardino Massa, scene di Giovanni Carluccio, costumi di Nanà Cecchi), fortunatamente, poco c’è da dire, trattandosi di una messa in scena corretta, piacevole, divertente, lineare, del tutto aliena da stramberie. Scene semplici, ma efficaci, bei costumi, buone luci. Insomma, nessuna bieitata, michielettata, warlikowskiata o kusejata, ma solo il lavoro di un regista che voleva servire l’opera e non servirsi di essa per illustrare malamente le sue masturbazioni mentali. All’inizio dell’opera c’è il serpentone mostruoso, la Regina della notte appare in mezzo al cielo notturno, Papageno è un uccellatore, Sarastro un gran sacerdote, Tamino un principe orientale, ci sono i campanelli ed il flauto è un flauto (mi pare di aver letto tempo fa che in una messa in scena tedesca il flauto avesse un’inequivoca forma fallica gigante…… che regia del c…!, ma sono regie tedesche!). Forse alcuni momenti dello spettacolo non erano del tutto riusciti, ma nel complesso le cose andavano bene.
Il direttore Asher Fisch che tanto aveva annoiato l’anno scorso in Carmen qui è andato un po’ meglio; i tempi non erano troppo spediti (si vede che non è nel suo DNA la rapidità), né la direzione era troppo fantasiosa, ma tutto sommato, grazie anche ad un’orchestra sempre di buon livello, precisa e di bel suono (posizionata più in altro del consueto, essendo anche in formazione ridotta rispetto agli organici esibiti in altre opere), le cose sono andate alla fine senza traumi, i cantanti sono stati accompagnati e non coperti ed i momenti topici dell’opera sono venuti fuori.
“Il flauto magico”, nato per il teatro di Schikaneder, non per un grande palcoscenico cesareo, può essere allestito anche senza scomodare grandissimi divi dell’ugola (Tamino non ha le difficoltà di Idomeneo, né Pamina di Donna Anna), essendo sufficienti dei cantanti preparati, anche se non vocalmente eccezionali, richiedendosi però la presenza di un soprano di agilità, facile nel registro acuto e nella coloratura e di un basso che sappia scendere al grave. Senza dimenticare un baritono con una buona linea di canto che abbia una certa vis comica e che sappia divertire il pubblico con i lazzi di Papageno, pur senza eccedere. Ovvio che quando ci sono dei grandi cantanti la differenza si sente bene; Roswaenge, Gedda, Wunderlich, Pasero, Siepi, Moll, Taddei, Moser, Gruberova, Schwarzkopf, Sciutti, Fischer-Dieskau (per limitarci ai soliti noti) hanno cantato l’opera come ben sappiamo, però è ben più facile mettere in scena “Il flauto magico” senza assoluti fuoriclasse di quanto lo sia mettere in scena “Gugliemo Tell”, “I puritani”, “Les huguenots” o “Tristan und Isolde”.
Ovvio è che il giudizio sulla compagnia deve tener conto dello stato miserando attuale; se il termine di paragone fossero le storiche esecuzioni del Flauto di Furtwaengler, di Karajan, di Boehm o di Klemperer negli anni ’50, allora il giudizio sarebbe in un certo senso, mentre se detto termine è costituito dalla media odierna, il tutto cambia notevolmente.
A Torino non c’erano degli assoluti fuoriclasse, ma le cose non lasciavano complessivamente a desiderare. Il livello medio dei protagonisti era omogeneo ed abbastanza sufficiente, nel suo insieme la compagnia sembrava mediamente migliore di quelle assemblate in stagione per altri titoli o a quella della “Aida” della scorsa stagione, allestita con un soprano dalla vocina piccina, piccina, piccina (forse – ripeto, forse – sufficiente per Despina, ma non per Aida), un tenore vocalmente non esaltante, un baritono malridotto, ma almeno un mezzosoprano in gran forma ed un basso di assoluta correttezza.
Corretti, abbastanza piacevoli il Tamino di Antonio Poli e la Pamina di Ekaterina Bakanova; se non v’era nulla di eccezionale nella loro prestazione, non v’era nemmeno nulla di censurabile. La linea di canto di entrambi era corretta, l’interpretazione forse non troppo personale, ma, nel complesso, la sufficienza era raggiunta.
Divertente il Monostatos di Cameron Becker; piacevole la Papagena di Elisabeth Breuer. Per cantare tale parte non ci vuole una gran voce, né si canta troppo; quel che ha fatto, lo ha fatto abbastanza bene.
Sarastro sarebbe dovuto essere Kristinn Sigmundsson, che per un’indisposizione ha cancellato tutte le recite dopo la prima. Pertanto il ruolo è stato interpretato dal giovane basso (mi si dice napoletano) Antonio Di Matteo, in origine previsto per le recite della seconda compagnia. La voce è davvero impressionante, un autentico timbro di basso profondo, scuro, come se ne sentono veramente pochi in giro, non uno di quei pseudo-bassi che paiono dei tenori sfiatati che tubano faticando nelle note gravi. Nel nostro caso Di Matteo non aveva problemi nella parte bassa del pentagramma. La tecnica di canto, però, sembra ancora da affinare, si scorgono alcune imperfezioni; c’è solo da augurargli che la perfezioni nel modo corretto (è giovane, ha ancora tempo), perché la voce è bella e di un genere che ormai si sente di rado.
La palma dei migliori in scena va ad Olga Pudova (Regina della notte) ed a Markus Werba (Papageno), che, giustamente sono stati i cantanti più applauditi dal pubblico.
La parte della Regina è, in quanto a minutaggio, estremamente breve; forse canta una decina di minuti in tutta l’opera, tutt’altra cosa rispetto a Brunilde del Crepuscolo, o Isotta, ma le due arie che si devono eseguire sono un vero banco di prova per qualunque soprano che tenti di eseguirle. Nel nostro caso la signora Pudova è stata brava: le agilità c’erano, i sovracuti pure e che si aspettava i soliti fuochi d’artificio della seconda aria non è rimasto deluso.
Werba come Papageno è una vera garanzia. Baritono acuto, di timbro chiaro, non ha una voce particolarmente possente, ma la sa usare. Recentemente si sono lette delle buone recensioni per il suo Sixtus Beckmesser alla Scala e per il suo Lord Enrico Ashton a Venezia. Papageno è un ruolo che gli sta a pennello. La parte è cantata con garbo e notevole verve, ma senza strafare. Scenicamente è assai bravo e in qualche occasione, nei parlati, ha introdotto – secondo le migliori tradizioni – qualche battuta in italiano, che ha suscitato l’ilarità del pubblico. La linea di canto è corretta, l’interpretazione azzeccata.
Gli altri cantanti erano di livello variabile, dal sufficiente, al quasi sufficiente, alla insufficienza.
Volonterose le voci bianche che interpretavano i tre geni, ma non siamo ancora al livello dei fanciulli cantori di Vienna o di Tölz. In ogni caso bene fa il Regio a sviluppare un coro di voci bianche ed a cercare in casa le voci bianche soliste per le proprie produzioni, invece di importarle aliunde.
In conclusione: uno spettacolo piacevole, che non ha fatto rimpiangere i soldi del biglietto, pur senza particolari forti emozioni.
D’altro canto, domenica scorsa, per provare forti emozioni a Torino si doveva andare allo Juventus Stadium, dove la Juventus suggellava con la vittoria la conquista del suo sesto scudetto consecutivo (per restare in campo musicale, chiedere a Salvatore Accardo quali emozioni può dare la Juve). Ed anche fra il compito pubblico del Regio, alla fine dell’opera, molti si informavano del risultato (nihil sub sole novi: ricordo che trent’anni fa, quando i cellulari non si sapeva ancora cosa fossero, durante gli intervalli delle recite pomeridiane spuntavano fuori molte radioline per seguire i risultati di Juve e Toro) e manifestavano la propria gioia. Pure io sono uscito dal teatro con, al collo, la sciarpa della Juve, che “per tutti i casi dabili” avevo in tasca della giacca e che ho indossato non appena avuta la conferma via sms della vittoria bianconera, dopo la fine dell’opera, ma prima ancora che le luci del teatro si accendessero, e mi sono mischiato alla folle che festeggiava, peraltro in modo estremamene civile e tranquillo. È stata, tutto sommato, una domenica piacevole.
D. Carlo de Vargas