Damiano Michieletto firma la produzione nata ad Amsterdam ed oggi all’Opera di Roma di Il Viaggio a Reims , protagonista un cast che non ha nemmeno l’onore di essere citato nome per nome nei commenti del web: il pubblico si diverte e discute dell’ambientazione nel museo, per molti troppo scontata ( vista e stravista ) per un nome altisonante come Michieletto. A leggere le opinioni, il valore di novità del Konzept registico pare il solo parametro di giudizio della produzione, mentre sul canto nessuno si esprime: l’eventuale metro di comparazione sembrano essere i saggi finali dell’Accademia di Pesaro. Con questo evento romano possiamo dichiarare ultimata la parabole esecutiva della partitura, una delle punte più alte della filologia moderna e come tale proposta a Pesaro nel 1984 con un target artistico eccezionale, nel pieno della Rossini renaissance, quindi alla Scala un anno dopo.
Inutile lagnarsi oggi che il Konzept michielettiano sia abusato, perché è errato giudicare gli spettacoli in base ad un mero criterio di novità. Uno spettacolo, d’opera soprattutto, non deve sempre “stupire”, piuttosto deve essere adeguato e conforme al testo che rappresenta, ai valori in esso contenuti. L’idea in sé della produzione romana, al contrario, poteva anche essere adeguata alla cantata rossiniana, ma è mancata una realizzazione che restituisse a dovere tutto quello che è il Viaggio. Ciò che è… o meglio….che significò per Rossini e che brillantemente la sua riscoperta seppe riproporre, un insieme di valori che oggi, stante le produzioni correnti, non hanno più nemmeno memoria, tali sono state la svendita e l’inflazione del Viaggio a Reims perpetrate in questi anni da esecutori abborracciati e registi ignoranti. Con la firma ROF, naturalmente, che tutto ha proposto e tutto ha distrutto in questi ultimi lustri.
Una cantata scenica e non un’opera, dunque una trama non trama, dove i più grandi cantanti dell’epoca che di Rossini fecero la fortuna e la gloria, esibivano se stessi. Cantare il proprio canto per celebrare una incoronazione, rappresentando metaforicamente l’omaggio delle nazioni d’Europa al nuovo sovrano di Francia. Una CELEBRAZIONE a tutti gli effetti, dove ognuno è simbolo e rappresentazione, quindi idealità, come sempre in Rossini. L’occasione eccezionale non derogava dai modi del canto del tempo, soprattutto l’ironia non includeva la farsa, anzi la farsaccia. Lo garantisce la natura dell’evento per cui fu composta la cantata prima ancora dello spartito.
Il capolavoro, denso di autoimpresti, apparve e scomparve come musica di occasione. Riproposto dal Rof con una forma una scenica che coadiuvava il canto, il grande canto di Rossini si incastonava in un tessuto di elegante ironia alimentata da invenzioni originali e di buon gusto. La geniale macchina scenica di Ronconi non era mai svilita da frizzi e caccole d’accatto; diede ai solisti costumi eleganti e ben realizzati, nobili e magari anche divertiti, come per la Folleville, che collaboravano alla costruzione seria dei personaggi, affidando ad alcuni procedimenti registici misurati e contenuti il compito di segnare la componente divertente della piéce. Invenzioni come quella di Ruggero Raimondi, che decise di cantare la sua aria scimmiottando gli accenti delle varie lingue, venivano dispensate con eleganza, grande voce e presenza scenica di un cantante attore consumato, che straripava di personalità. Non ci sono personaggi mignon nel Viaggio, ma solo giganti della scena e soprattutto del canto. Non roba per brocchi, ma un raduno di tanti fuoriclasse: la celebrazione del 1825 equivaleva a quella del 1984 per il re Rossini.
Svilito, prostituito ai dilettanti dell’accademia pesarese, svenduto per ogni dove, abusato da qualunque mezza cartuccia si sia cimentato col belcanto in questi anni, il Viaggio a Reims è diventato oggi una palestra di gags, caccole, lazzi, volgarità e stupidaggini che non ha confronto con nessun’altra opera in repertorio. Uno svilimento iniziato già all’interno della produzione ronconiana stessa grazie a qualche subentrato big male in arnese o poco disposto ad imparare la parte, come Montserrat Caballè o Cheryl Studer, o con buffi che iniziarono ad infarcire i ruoli con scenette da Bagaglino. Quello spartito destinato ad una élite di cantanti per occasioni d’élite con un numero impressionante di prime parti, è finito scempiato su ogni palcoscenico di provincia con l’avvallo dato, di fatto, da Alberto Zedda, ed oggi è avanspettacolo. In questo humus contemporaneo è rimasto imprigionato Michieletto, incapace, come al solito, di pensare che la regia d’opera adeguata deriva dal tipo di canto che si porta in scena. Per una volta il conzept non era una “cazzata d’autore”, ma percorribile. Occorreva però vestire a dovere i personaggi di quei quadri che alla fine compongono il tableau vivant e muovere l’azione in scena con la misura e l’aplomb che hanno i divi e non i guitti. Occorreva dare un senso all’azione, francamente incomprensibile e senza senso. La tradizione moderna dei frizzi e dei lazzi, invece, è parsa troppo forte per essere messa da parte da un regista che, al contrario di quanto ho letto in giro, possiede l’abilità tecnica per fare uno spettacolo ma latita in fatto di comprensione colta e fondata di ciò che porta in scena. Di qui le perplessità sull’esito finale complessivo di una serata che non aveva canto al suo interno, né una buona direzione d’orchestra.
I cantanti erano pessimi, perche mancavano tutti i presupposti per approcciare le vocalità rossiniana. I personaggi storpiati, perduta l’aura nobile che i protagonisti principali di debbono possedere. Non voglio addentrarmi nelle mende dell’intepreti di Melibea o di Madame Cortese perchè sarebbe imbarazzante scriverne con parole esatte. La qualità del canto non è più il valore centrale dell’opera lirica, nemmeno quando si parli del belcanto, e infatti il pubblico, a ben leggere, quasi non ne parla.
Il solo che ha cantato con decenza è stato Nicola Ulivieri, che ci ha riproposto una fedele imitazione in micro (sia di presenza scenica che di voce ) di Ruggero Raimondi, alzando così la bandiera bianca per tutti i cantanti di oggi. Se il meglio di una parata di grandi prime parti arriva dall’imitazione smaccata di un grande del passato privata delle qualità….beh,allora possiamo ben dire che l’opera oggi come oggi equivalga a “Piccoli fans” di S. Milo. Siamo ad una tale lontananza da ciò che sarebbe necessario per approcciare questo repertorio da poter affermare che le vituperate Norme di Gina Cigna o Zinka Milanov o Eugenia Burzio, sulle quali si è fatto tanto esercizio di critica per mostrarne le carenze stilistiche e/o tecniche, fossero assai più vicine alle grandi esecuzioni di Norma di quanto non lo siano ad una valida esecuzione di Rossini questi cast semi dilettanteschi.
Eseguire meno musica impegnativa, ma meglio. Cantare ciò che è alla propria portata. Rappresentare i titoli per i quali si hanno i cantanti disponibili. Redigere i cartelloni solo se si capisce di canto e se si è uomini di teatro che hanno visto cosa era l’opera e comprendono quale orrenda caricatura sia diventata. Conservare la memoria della qualità e dell’arte.
Amen!
Non ho la vostra competenza nel giudicare uno spettacolo d’opera, certamente è vero che ormai le voci sembrano più uno dei tanti aspetti di uno spettacolo che vive di molto altro, piuttosto che l’aspetto qualificante (basti pensare all’irritante consuetudine, almeno a Roma, di presentare opere con più cast alternativi, e non specificare chi canterà in quale giorno prima di mettere in vendita abbonamenti e biglietti). E certamente è vero che almeno un paio di voci a Roma sono risultate inadeguate anche allo spettatore meno avvertito (Francesca Dotto e Merto Sungu nella primissima parte dello spettacolo semplicemente in un paio di occasioni non si sentivano per niente, un effetto “pesce rosso” impressionante). Mi pare però che il giudizio negativo sulla regia in questo caso sia eccessivo. La regia televisiva purtroppo non è stata in grado di trasmettere la magia e la bellezza di alcuni momenti che in sala sono stati vissuti oserei dire con meraviglia: l’animarsi ed il ballo delle tre Grazie, il duetto Melibea/Libenskof in parallelo con il litigio degli innamorati moderni, ma soprattutto la grande e lunga scena finale in cui i personaggi che si sono agitati qua e là per tutta l’opera trovano la propria identità e prendono il loro posto nel grande dipinto celebrativo dell’incoronazione di Carlo X. E’ una scena che andava vista dal vivo, nel suo complesso e nella sua studiata lentezza, non interrotta dai primi piani della regia televisiva, che le hanno tolto fascino ed intelligibilità. La meraviglia di un tableau vivant che si trasforma nell’identica immagine del quadro vero e proprio. E che ha reso il lungo ed anacronistico canto di Corinna che la accompagnava significativo ed in un certo modo sensato anche per il pubblico di un’epoca, ed una sensibilità, così diversa. Per il resto sono d’accordo, la prima parte ha esagerato con frizzi e lazzi, specialmente il figurante in mutande che corre per il palco è stato un tocco di volgarità evitabile, ma vi assicuro che l’ingresso sul palco dei personaggi dei quadri di arte moderna e contemporanea ha fatto ridere tutto il teatro, ed anche un po’ riflettere sull’evoluzione dell’arte figurativa.
L’ho visto- lo ammetto non tutto poichè l’ho trovato noiosissimo- in tv su RAI 5. Le luci in alcune scene erano anche suggestive e l’impianto generale poteva anche essere interessante…30 anni fa però! Erano più avveniristiche le vasche e le sedie di Pizzi o l’organo che si vedeva (non era un oggetto di scena) nella ripresa a Tokyo dello spettacolo del 92 con Abbado… vi era un’atmosfera plumbea che ben poco si addice a il Viaggio a reims che è quasi un divertissement… non c’è bisogno di stupire- non mi ha stupito- in ogni opera. Sembra che Rossini sia passato dalle risate e i “ciangottamenti” degli anni 50 a un’atmosfera Europa Unita Mario Monti… i “cantanti” erano sempre soffocati dall’orchestra e non adeguati…mah…già fanno fatica a cantare da fermi figuriamoci muovendosi o salire su scale (finale atto primo, tra l’altro molto lento e non spiritoso). Non si avverte il divertimento nel cantare, ma tanto sforzo e voglia di arrivare alla fine. Cantare Rossini dovrebbe far riposare la voce, posto il fatto di avere una tecnica adeguata alle spalle. Il compito del regista è dare giustizia al lavoro di Rossini non solo mettere in scena le proprie idee- e se Rossini non le prevedeva che vada al diavolo-. L’uomo in mutande ed altre amenità non fanno riflettere secondo me, poichè quello è il messaggio di Michieletto non di Rossini. Rossini era un ottimo “regista” vocale, non mi sembra fosse avaro di colpi di scena o altro.
La sua Analisi Giulia Grisi è sempre ottima!
Scusate il t9 e non era Pizzi ma Ronconi!! Un lapsus poichè l’ho rivisto come paragone subito dopo la diretta!
E posso dire che se non mi piacesse moltissimo neanche il vecchio spettacolo del 1984…rispetto a questo era avanguardia pura!