Questa nuova puntata dedicata alla musica “dall’altra parte del muro” è tutta “russa”: dal compositore ai musicisti. Dedicare un capitolo a Čajkovskij e alle sue sinfonie può apparire una scelta un po’ scontata, inutile e “facile”. Forse perché “troppo” popolare il rischio è di istintivo rigetto: spesso viene liquidato – da questa parte del muro – come compositore semplice, immediato, “europeo”…sino all’accusa di banalità, in contrapposizione con il “gruppo dei cinque”, veri epigoni della rinascita musicale russa. Eppure tutte queste certezze diminuiscono se si ascolta come Čajkovskij viene eseguito nella sua terra: si scopre così una animo profondamente russo, intriso di malinconia e pessimismo (del resto tutta la sua vita fu un complesso scontro interiore tra il successo mondano, l’insicurezza di non piacere o di non essere all’altezza delle proprie idealità ed un profondo senso di colpa per l’omosessualità repressa) che nulla ha a che fare con certe zuccherose esecuzioni a cui anche grandi e grandissimi interpreti ci hanno abituato. Čajkovskij non fu mai – se non quale bersaglio polemico – il campione della sudditanza verso la musica europea, irriconoscente e sordo alla profondità dell’animo russo; non fu mai il facile compositore di musica “leggera” per deliziare le “etoiles” dei teatri occidentali sotto l’occhio vigile e lubrico dei loro protettori borghesi; non fu mai alla continua ricerca di superare il presunto complesso di inferiorità verso i colleghi austriaci, tedeschi o francesi. Tutt’altro: il problema Čajkovskij era tutto in terno a sé, alle sue insicurezze e a quel tormento interiore che lo porterà al probabile suicidio. Ascoltando queste interpretazioni sovietiche (ce ne sono molte, mi sono limitato a scegliere i “classici”) si coglie lo stile originalissimo che non intende “europeizzare” la musica russa (come a torto spesso si sente accusare), ma al contrario interpretare in chiave russa e “nazionale” linguaggi e strutture appartenenti alla scuola classica del sinfonismo europeo. Per far ciò Čajkovskij attinge all’ampia letteratura del folklore (ucraino in particolare) traducendolo – attraverso una scrittura padroneggiata alla perfezione – in una tavolozza timbrica e orchestrale di estrema varietà e colore. Colore che non diviene mai bozzetto, ma che mantiene – in perfetta coerenza con l’iper romanticismo russo – un saldo riferimento ideale. Le sei sinfonie sono l’emblema di questo tormentato percorso, di questo rapporto impossibile con i propri fantasmi: ogni lavoro fu il portato di fatica e dubbi nella ricerca di una perfezione che lo avvicinasse al suo ideale, ma che si scontrava sempre con il disamore ed il senso di inadeguatezza (e questo nonostante il gradimento del pubblico). Uno sguardo – necessariamente superficiale – mostra una prima cesura nel catalogo sinfonico dell’autore, che corrisponde all’intensificarsi del conflitto interiore e l’acuirsi della depressione e della sfiducia. Le prime tre sinfonie, infatti, rivelano, ancora, un tratto “pittorico” (pur sublimato nell’intento di tradurre in musica non la “natura”, bensì il senso della natura sull’uomo) ed infatti rivelano una certa affinità con la musica “a programma”: in esse il fattore folcloristico emerge con maggior forza e si rivela sin dalla titolazione (“Sogni d’inverno”, “Piccola Russia”, “Polacca”). In esse la tavolozza timbrica dell’orchestra esalta colori e profumi in un rapporto soprattutto “fisico” con la materia sinfonica. A partire dalla Quarta sinfonia qualcosa cambia e Čajkovskij pare concentrarsi su sé stesso, sul suo disagio. Proprio la Quarta Sinfonia, cupa e disperata, è dall’autore intesa come rappresentazione del “Fato” inteso come forza terribile e nefasta, ostacolo principale al raggiungimento di ogni felicità: è la realtà disperata della vita che solo quando si distacca attraverso il sogno dona un’illusione di momentanea pace. Al medesimo tema è dedicata anche la Quinta (probabilmente il capolavoro sinfonico dell’autore) in cui il senso di rassegnazione è più palpabile e completo, esasperato nel contrasto con il corale grandioso che ne suggella la conclusione. Infine la Sesta per cui riporto le stesse parole del compositore che la definì – una volta ultimata – intrisa dell’atmosfera di un Requiem: “riflette via via i miei sentimenti più intimi. In viaggio, mentre mentalmente ne andavo componendo l’abbozzo, scoppiai più di una volta a piangere come se fossi in preda alla disperazione”. E andrebbe considerata anche la sinfonia “Manfred” con i suoi toni lugubri e disperati. Lascio ora spazio agli ascolti: diversi – soprattutto per le ultime tre sinfonie – dalle esplosioni in technicolor o dai languori zuccherosi di tanti blasonatissimi interpreti che, pur nel loro splendore sonoro e vitalissimo (parlo di Karajan e di Bernstein) non hanno colto del tutto la profondità “russa” e disperata di Čajkovskij.
Gli ascolti:
Sinfonia n. 1 “Sogni d’inverno”: Evgenij Svetlanov
Sinfonia n. 2 “Piccola Russia”: Gennadij Roždestvenskij
Sinfonia n. 3 “Polacca”: Gennadij Roždestvenskij
Sinfonia n. 4: Evgenij Mravinskij
Sinfonia n. 5: Evgenij Mravinskij
Sinfonia n. 6 “Patetica”: Evgenij Mravinskij
Ciaikovskij condivide con Chopin le stesse problematiche: il rischio di renderli troppo “svenevoli” da un lato, il tentativo (altrettanto errato) di volerli, a tutti i costi, “virilizzare”. Difficile trovare l’equilibrio fra i due opposti.