Lo abbiamo scritto: Semiramide è il punto più alto della produzione rossiniana, il titolo che influenzò per lungo tempo, pur mutati poetica e gusto, il melodramma italiano; e ciò non perché, usando categorie crociane, Semiramide sia l’opera più bella, ma perché è la più completa sotto il profilo drammaturgico, musicale e vocale della produzione rossiniana. Il termine “monumento” è quello che più connota il capolavoro di Rossini: in un presente che fa dello scempio, della distruzione e degli sfregi di molti monumenti nell’asserito nome della religione e dell’ideologia la sua norma, il termine “monumento” si addice ancor più a Semiramide. Ciò che è stato servito a Nancy e che lo streaming ha consentito di vedere ed ascoltare e che, per colmo dell’onta, certa compra critica nostrana, prontamente accorsa in luogo, non ha esitato a esaltare e celebrare, è l’equivalente della distruzione di Palmira.
Si tratta del peggiore scempio pensabile per chi con Semiramide è cresciuto. Vogliamo ricordare, tanto per sottolineare l’amore per questo titolo rossiniano, le discussioni della nostra gioventù sul fatto se fosse superiore nella frasetta “è mia madre e mio padre forse il pianto perdonarle ancor vorrà” la Horne, che inseriva un bellissimo trillo a prezzo di due fiati, o la Dupuy, che la risolveva in piano ma d’un fiato solo e con un’espressione di misurata disperazione. E oggi? Ci troviamo davanti un Arsace falsettista che evoca non certo i fantasmi delle Alboni, Pisaroni, Horne, ma solo il grido “Mabilia!!!”, che per voce della Teresa dei Legnanesi precedeva l’entrata in scena della figlia; uno pseudo-cantante che legge la lettera facendo la parodia di Tina Lattanzi, a fianco di un’altrettanto pessima protagonista, che a Pesaro contrabbandano per la nuova Colbran e che semmai potrebbe, nell’abito di una corretta attribuzione delle parti in un’opera di Rossini, vestire i panni di Cefisa o di Argene.
Le scene e i costumi con tanto di guardinfante per i “maschi” secondo un trovarobato di terza scelta pescato dai fondi di magazzino baroccari tanto cari al gusto francese non fanno che rendere totale il travisamento di un titolo per il quale l’aggettivo barocco è comunemente utilizzato solo nel suo significato di sovrabbondante, ricco ed opulento, non certo per indicare l’appartenenza o la riconducibilità a una poetica e un gusto propriamente barocchi.
Quanto al punto più rilevante della distruzione di Rossini in nome di quella che è un’impostura, ovvero l’errore storico di affidare il ruolo a un falsettista il cui sogno, non osando cantare Semiramide o Armida, è quello di vestire i panni dei travesti rossiniani, dopo aver, lui e molti suoi simili, scempiato l’opera barocca propriamente detta, il nostro pensiero è scontato, già detto, ridetto e più volte ripetuto. Il ruolo di Arsace fu pensato per un contralto en travesti, tutti i contralti dalla Mariani in poi (almeno dieci nomi di cantanti storiche sarebbero da farsi!) sono stati interpreti di questo ruolo che non venne neppure affidato all’ultimo castrato: in primo luogo poiché nel 1823 il solito Velluti era al capolinea della carriera, in secondo luogo e ben più importante poiché Rossini, pur elogiando le voci di “quei mutilati” e pur essendo ancora lontano, da figlio del suo tempo, dall’associare all’amoroso la voce maschile, concepiva, tuttavia, figure di giovani guerrieri coinvolte in situazioni dal tasso tragico e dalla varietà vocale ben maggiore di quelle appannaggio degli ultimi evirati. Per mettere la parola fine all’antistoricità di un castrato nei ruoli en travesti rossiniani (dei surrogati come Fagioli non vale neppure la pena parlare) basta riflettere sulla differenza che separa i primi travesti del pesarese, che ancora risentono della tradizione precedente dei vari Zingarelli, Tritto, Niccolini, da Falliero o Arsace. C’è di più, basta prendersi la briga di andare a leggere la corrispondenza fra Gaetano Rossi e Giacomo Meyerbeer dell’anno 1823 quando, alle prese con la scelta del protagonista del Crociato in Egitto, il librettista si rendeva perfettamente conto dell’inadeguatezza di Velluti, scritturato dall’impresa veneziana, e suggeriva di chiamare uno dei maggiori contralto del tempo, la Bassi Manna; per chi non lo sapesse, salvo la scempiata versione veneziana con il solito surrogato di castrato, il titolo di Meyerbeer circolò abitualmente nella versione che l’autore confezionò per due travesti, la Bassi e la Pasta.
Davanti a cotanto scempio filologico, storico e musicale propinato a Nancy, cosa resta al pubblico se non la possibilità di interrompere prima della fine siffatte indecenze con ogni mezzo possibile, verdure marce e insulti compresi?
Quanto alla direzione d’orchestra, ministrata dal signor Domingo Hindoyan, basta l’esecuzione della scempiata sinfonia (ché il taglio dell’introduzione in tempo lento, tema del giuramento compreso, e l’omissione del ritornello all’allegro neppure nella provincia più fonda e negli anni più bui dell’antifilologia sarebbero risultati tollerabili) per constatatare come l’equivoco sul carattere della partitura non sia meno grave di quello a opera dei solisti. Tempi e sonorità da farsetta partenopea, meccanicità e clangori contrabbandati per precisione e solennità, nessuna capacità di accompagnare un canto che mai come in questa occasione avrebbe avuto bisogno di ogni sostegno possibile (per tacere dell’unica soluzione oggettivamente praticabile con capi d’opera come la signora Jicia, ovvero la protesta). Le forbici serafiniane (unico punto di contatto fra la disgraziata produzione e il maestro di Cavarzere) si sono abbattute sulla parte di Idreno, privato della prima aria, ma la superstite seconda e soprattutto gli interventi nei concertati provano la distanza incolmabile che separa Matthew Grills non già dai campioni della Rossini Renaissance, ma dai vituperati Raimondi e Garaventa, che almeno avevano timbro e linea di canto degni di questo nome. Quanto a Nahuel Di Pierro (Assur), l’unico che abbia almeno tentato di dare un senso a quanto stava cantando (non sempre riuscendovi, ché le risate isteriche al termine del duetto con Semiramide e gli inserti prossimi al parlato nella scena della follia si potevano e anzi si dovevano evitare), sconta una natura schiettamente tenorile e un’organizzazione vocale come minimo rivedibile, che limitano in maniera decisiva la possibilità di essere davvero incisivo nei panni del satanico antagonista. E’ anche vero che abbiamo, in tempi recenti, udito ben di peggio da cantanti assai più quotati in questo repertorio.
A margine di questo autentico scempio – musicale e filologico – ci si chiede cosa resti della critica! Una critica che non solo non si ribella a queste manipolazioni e perversioni, stigmatizzando come sarebbe doveroso, l’insufficienza qualitativa di siffatti spettacoli e il vuoto pneumatico in codeste scelte artistiche, ma se ne fa complice lodandole come iniziative “moderne” e “intriganti” che gettano “sguardi nuovi” a repertori ormai stantii (secondo loro) e bisognosi di ricevere cure e linfa fresca dalle menti “eccelse” di chi ci propina questa immondizia. Complici senza pudore! E quel che pare peggiore è la mancanza di strumenti culturali e tecnici per poter prendere posizioni: perché un critico musicale (si presume un professionista che dovrebbe avere specifiche competenze) non si preoccupa di evidenziare l’errore di considerare Semiramide alla stregua di un lavoro di Lully, o che non si preoccupa del fatto che si affida una parte scritta per contralto donna ad un falsettista (anzi, vede la cosa come normale, o addirittura più corretta relegando ad una non meglio chiarita “tradizione” il ricorso per tali ruoli a cantanti femminili), o che nulla dice dei tagli vergognosi fin dalla sinfonia (cosa inaudita!), beh allora dovrebbe cambiare mestiere. Il fatto è che oggi l’ignoranza dilaga: nel pubblico così come nella critica…e la cultura o l’arte (sia essa musica che pittura, architettura, scultura o letteratura) sono ridotti ad outlet di bassa qualità, ma estremamente fighetti e glamour. Ci si fa il selfie all’opera o alla Reggia di Caserta, in mezzo al chiasso, ai panini, alle comitive urlanti, per il solo gusto di mettersi sui social…senza accorgersi che quelle opere d’arte stanno cadendo a pezzi.
Donzelli/David/Duprez/Nourrit/Tamburini
Ma non chiamiamola più critica …..non ci provano nemmeno a farne. E sono somari raglianti senza orecchie…
certo che pure la messa in scena è di una povertà raccapricciante… non andrei scomodare i Legnanesi, loro ci mettono molta più cura e professionalità.
Sono Pazzi Questi Lorenesi
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E perchè non fare cantare Arsace da un baryton martin? O da un baritono tout court ? Magari anziano. Milnes, Bruson, Zancanaro o Nucci! Almeno loro Rossini lo avevano in repertorio!
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Tanto tempo fa da qualche parte – forse proprio in Francia o in Germania, non so più dove – avevano già affidato ad un falsettista la parte di Fiodor nel Boris, parte ancora meno riconducibile all’estetica settecentesta di Arsace.
E dato che adesso pare andare di moda l’estetica del “femolo strano” non mi stupirei se in una futura produzione del Sogno di una notte di mezzo estate di Britten la parte di Oberon, quella sì scritta per falsettista, venisse affidata ad una donna, mentre le parti femminili a falsettisti….
(non vorrei aver dato l’idea a qualche direttore artistico scarso di idee….)
Sono Pazzi Questi Francesi
L’accenno (proposto da Donzelli) alla comparazione Horne-Dupuy in una frasetta, solo apparentemente banale, del ruolo dà la misura della distanza siderale che ci separa ormai da un certo modo di intendere Rossini (da una parte e dall’altra del palcoscenico). Forse chi cerca discutibile rifugio in iniziative “innovative”, come i controtenori impiegati nei ruoli composti per cantanti donne o l’invenzione (nel senso di artefatta e artificiosa costruzione) di novelle Colbran come la signora Jicia, inconsciamente ammette che certi modelli restano tuttora insuperati e si sforza, pertanto, di trasformare l’opera in qualcosa d’altro.
Solo una precisazione, visto che ho assistito in teatro a una recita di questa Semiramide: il taglio nell’ouverture (ridotta a 4 minuti e mezzo, invece dei 12 reali) è presente soltanto nella stream di culturebox. Durante la rappresentazione in sala l’ouverture era completa di tutti i ritornelli.
Strani, davvero strani questi tagli “mediatici”… su tre ore di streaming, quale incidenza possono mai avere otto minuti?
Ma di grazia, il taglio all’ouverture e’ giustificato da cosa?? Sono 12 (dodici) minuti di musica, 15 va’ se la esegui un po’ sbolsa, erano troppi?
Purtroppo la mania di questi giovanotti che cantano come fringuelli (o come gli fosse caduto un incudine sul piede…) e’ nata dal movimento filologico barocco, che peraltro, di positivo, ha scrostato molte esecuzioni di Bach, Händel, Vivaldi, Scarlatti, dalle pesantezze tardoromantiche. Secondo me rendono brutto pure Vivaldi, figurati Rossini.
Che poi a fare i precisi precisi questa moda dei falsettisti nei ruoli che furono dei castrati è una forzatura maggiore dell’uso delle donne (Haendel tanto per dirne una se non aveva un castrato nei ruoli en travesti usava una donna) figurarsi in Rossini roba da erigere una pira e bruciare tutto.