Se la filosofia tomistica ha inteso l’indagine sui vizi e i peccati capitali come via d’accesso all’etica attraverso gli strumenti classici della logica aristotelica, il rinascimento prima e l’età barocca poi hanno fatto del concetto di vizio un’allegoria che trovava spazio tanto nell’apologo morale quanto nel divertimento profano. Tra ‘500 e ‘600 muta il rapporto dell’uomo con il peccato – la Controriforma, in questo senso, fu fatto più politico-culturale che sociale – che divenne da chiave per la salvezza o per la dannazione, a fattore umano con cui convivere nella consapevole debolezza della carne. Tale recupero si accompagna da una parte all’abbandono del modello neopagano del rinascimento (legato alla rivisitazione del mito classico) dall’altro all’invasione nelle arti e nella letteratura di una forte simbologia etica. Simbologia che si tramuta in allegoria. Questa suggestione sta alla base del concerto di Leonardo García Alarcón al Festival Monteverdi: la riflessione su passioni, virtù e vizi che caratterizzano il XVII secolo e lo identificano con l’età delle grandi contraddizioni. Splendori e incertezze, trionfo dell’arte più immaginifica e guerre, dubbi e miseria: dallo smarrimento concettuale di fronte agli interrogativi profondi della scoperta del Nuovo Mondo alla tensione verso la meraviglia e lo stupore. In questo magma opera anche Monteverdi che, attraverso la propria avventura musicale, pare districarsi nella selva “morale e spirituale” di sacro e profano, in un labirinto di simboli di estrema ricchezza e varietà. In questa varietà – specchio della condizione umana – la riflessione sui vizi e le virtù è centrale (anche se non ci sono opere espressamente dedicate al tema). Sulla base di questo suggerimento storico Alarcón confeziona un programma di sicura presa ed interesse (pur a discapito di una certa coerenza filologica di cui parlerò in chiusura). Sulla scorta di un tema conduttore di carattere morale, il programma racchiude lavori eterogenei che vanno dal madrigale al canone, sino a brani di opere, duetti, pezzi d’insieme e canzoni a rappresentare in poco più di 80 minuti l’universo monteverdiano (almeno nel suo carattere profano). La cornice suggestiva dell’Auditorium Arvedi con la sua acustica perfetta e lesine sinuose che ricordano le pieghe di uno Stradivari, la bellezza – scontata – dei brani scelti, la generale bravura degli interpreti strumentali e vocali, hanno contribuito ala riuscita di una serata accolta con grande calore dal pubblico cremonese. Anche il programma era ben congeniato nel giustapporre brani dal carattere contrastante, creando una narrazione di idee e stati d’animo. Alla guida della sua Cappella Mediterranea, Alarcón all’organo, dirigeva la navigazione tra vizi e virtù, ricorrendo ad impasti sonori suggestivi e rielaborazioni strumentali di bel colore. Certo alla lunga il gioco finisce per lasciare qualche dubbio, nel senso che i brani così eseguiti e decontestualizzati appaiono più come un bel catalogo di effetti più che di affetti, perdendo un po’ di profondità: in particolare hanno sofferto gli estratti dal Ritorno di Ulisse in Patria e dall’Incoronazione di Poppea (il dialogo tra Nerone e Lucano, troppo caricaturale, ha perso quel gusto erotico che possiede fin dalla sola lettura del testo). Dato atto, poi, della bravura degli interpreti – almeno quasi tutti – resta qualche piccola osservazione di portata generale: come considerare un concerto del genere? Era davvero Monteverdi? E’ lecito spingere sino a tal punto la rielaborazione del testo? E’ un problema che ricorre spesso nell’interpretazione della musica barocca e prebarocca, in cui il pretesto della “libertà” diviene scusa per l’arbitrio. Ora, non mi scandalizzo certo per una scelta eterogenea di brani, ma di certo la mano del direttore è pesante nel rielaborare, tagliare, assemblare, orchestrare una serie di brani per struttura e forma differenti, ed adattati ai bisogni effimeri dello spettacolo. Il problema risiede soprattutto nella realizzazione musicale dove talvolta vi era la sensazione che la musica di Monteverdi servisse solo da canovaccio per creare qualcosa di piacevole, certo, ma filologicamente poco giustificabile. Pur nelle profonde differenze ho sentito in Alarcón quella spregiudicatezza che si ascolta in certo Vivaldi con i “riff” di tiorba e arciliuti manco si trattasse dei Led Zeppelin in salsa barocca, o in certi epigoni della Bartoli coi suoi sussurri, grida e smorfie… Alarcón è musicista più serio, certo, ma rischia di diventare fenomeno di moda. E da lì al manierismo il passo è breve. Alla fine resta il ricordo di una bella serata, ma il dubbio su cosa davvero stessi ascoltando, resta. Al termine della serata, dopo le richieste di bis (inascoltate, peccato: speravo in un “Pur ti miro/pur ti godo”) Alarcón ha preso la parola per ringraziare il pubblico, piuttosto numeroso, e con evidente emozione ha parlato di ciò che ha provato nel suonare Monteverdi nella sua Cremona, ricordando – a noi italiani che spesso ci dimentichiamo dei nostri grandi – che da Monteverdi nasce tutto, tutta la musica che sarà dopo nasce da quel genio cremonese nato 450 anni fa. Un plauso ancora a questo Festival che – con le immaginabili difficoltà, in questa Italia ingrata e instupidita – offre ogni anno, e questo in particolare, eventi di eccellenza con i maggiori interpreti della musica barocca. Negli ascolti propongo la stessa scaletta del concerto in versioni molto eterodosse…
Gli ascolti:
PROLOGO: Hor che’l cielo er la terra (Madrigali, Libro VIII)
LA SPERANZA: Speranza, tu mi vai (L’Incoronazione di Poppea)
LA PRODIGALITA’: Si dolce è ‘l tormento (Quarto scherzo delle ariose vaghezze)
L’ACCIDIA: Chi parla? (L’Incoronazione di Poppea)
L’INVIDIA: Compagni, udiste? (Il ritorno d’Ulisse in patria)
LA CASTITA’: Ardo e scoprir, ahi lasso (Madrigali, Libro VII)
LA SUPERBIA: Son risoluto insomma (L’Incoronazione di Poppea)
L’AVARIZIA: Hor che Seneca è morto (L’Incoronazione di Poppea)
L’UMILTA’: O ciechi (Selva morale e spirituale)
LA GOLA: Pastor d’armenti può (Il ritorno d’Ulisse in patria)
LA TEMPERANZA: Imparate mortali (Il ritorno d’Ulisse in patria)
LA LUSSURIA: Si ch’io vorrei morire (Madrigali, Libro IV)
LA CARITA’: Orfeo son io (L’Orfeo)
L’IRA: Voglio di vita uscir (Scherzi musicali)
LA FORTEZZA: Altri canti d’amor (Madrigali, Libro VIII)
https://www.youtube.com/watch?v=7DqleS5fed4
Sublime interpretazione