L’esordio di Antonio Vivaldi a Torino con la giovanile Incoronazione di Dario (1717) ha avuto un esito complessivamente positivo. La riproposizione di questo titolo del catalogo vivaldiano desta interesse e l’opera lascia piacevolmente sorpresi per la freschezza della musica, una certa originalità negli accompagnamenti strumentali delle arie, alcuni tratti coloristici “orientaliggianti” e la quantità non prevaricante di recitativi. Il libretto delinea una trama che globalmente funziona, quantunque piuttosto complessa: la vicenda è incentrata sugli intrighi che ruotano intorno alla successione al trono di Persia in seguito alla dipartita del Re Ciro e contempla ondivaghe e conflittuali relazioni tra i personaggi.
Se la scommessa può dirsi vinta il merito è senza dubbio di Ottavio Dantone, specialista di questo repertorio che, peraltro, ben conosceva la partitura avendola più volte diretta. Alla testa dell’orchestra del Regio “rinforzata” con alcuni elementi del suo ensemble barocco, il Maestro ha garantito una lettura filologicamente corretta e drammaturgicamente compiuta: tempi sempre giusti senza incongrue forzature, suono pulito, precisione nell’accompagnare e sostenere i solisti, tensione nel corso di tutta la serata e capacità di valorizzare le pagine virtuosistiche come quelle più malinconiche e, non meno importanti, i recitativi. La presenza di alcuni tagli non ha snaturato l’impianto dell’opera che, bisogna riconoscerlo, seppur sia un lavoro giovanile, può vantare un’efficacia drammaturgica e una coesione che manca, a dispetto della loro splendida musica. a titoli ben più frequentati e celebri di Vivaldi.
Come accade regolarmente in questo repertorio, le noti dolenti vengono dai cast, quasi interamente composti da specialisti, accomunati dalle medesime mende vocali e da voci modeste, impersonali e, dunque, generalmente intercambiabili tra loro. In quest’opera, che pur non prevede virtuosismi trascendentali rispetto ai titoli più maturi del compositore, i protagonisti sono comunque chiamati al difficile compito di rendere giustizia ai propri momenti solistici (numerosi per i personaggi principali) in cui le potenzialità espressive sarebbero enormi, se vi fosse la tecnica necessaria per venire incontro a tali esigenze.
Il protagonista Dario è Carlo Allemano, voce dal timbro gradevole che ricorda vagamente quello di Domingo, il modo di porgere è un po’ rozzo, le note gravi non sono piacevoli a sentirsi e le agilità sono di pura gola e talvolta imprecise, i salti, inoltre, lo mettono in difficoltà. Complessivamente, tuttavia, il personaggio funziona perché la voce ha una certa autorità e robustezza in rapporto a siffatto repertorio e nel corso dell’opera la prestazione del cantante va migliorando.
Nella Statira di Sara Mingardo si percepiscono l’agio nell’affrontare questo repertorio, la misura e l’eleganza che la contraddistinguono, ma anche l’usura del mezzo vocale. Suoi meriti maggiori sono la ricerca della morbidezza e dell’interpretazione più vera, tenendosi lontana da eccessi insensati e dando peso alla dizione, nonostante la voce mostri segni di fatica e evidenti limiti negli estremi del pentagramma. Positivi nel complesso anche l’Oronte di Lucia Cirillo che ha voce pulita e fresca, buona dizione e una certa misura nel canto, e l’Alinda di Roberta Mameli, voce dal bel timbro, flebile nei gravi, ma nel complesso garbata, con agilità precise anche se spesso aspirate.
Delphine Galou, nominalmente contralto, è Argene. La sua prestazione è scadente: voce bassa di posizione e gonfia d’aria, le agilità sono risolte alla maniera delle specialiste (le note ci sono, ma sul come vengono prodotte e gestite è meglio soprassedere). Gli acuti sono faticosi e tendono alla fissità, i gravi sono emessi in modo volgare e l’interpretazione è sovente sopra le righe con terribili inflessioni esageratamente veriste (specie in “Ferri, ceppi, sangue, morte” e nell’aria che presenta somiglianze con la celebre “Nel profondo cieco mondo”). Di contro, la cantante cerca di curare i recitativi in cui rivela, peraltro, una natura vocale lontana da quella del contralto. La Flora di Romina Tomasoni è pessima: note gravi sbracate e fioche seppur volgarmente ostentate, voce sotto i piedi, afonia, agilità sgradevoli; negli acuti emerge la vera natura della voce, quella di soprano. Pessimo anche l’Arpago di Veronica Cangemi, provvista di una voce sottile, secca e gonfia d’aria che, a tratti, ricorda la Ciofi, senza averne, però, l’intelligenza; le agilità sono spesso imprecise, nonostante la lunga frequentazione di questo repertorio, la fatica è sempre di casa, come anche l’afonia, la dizione è pure maldestra. Il baritono Riccardo Novaro, Niceno, possiede voce modesta, senescente, acuti molto faticosi, gravi deboli e un perenne accento da opera buffa; a tratti emerge il suo vero timbro, chiaro, da tenore.
Applausi cordiali per tutti senza punte di entusiasmo.
Una ventata di fresco. In fin dei conti concordo con la recensione, ma Torino può o deve offrire anche serate come questa. Forse non entusiasmanti ma che creano un’atmosfera direi quasi di purezza, incontaminata. Pazienza se non si sono esibiti dei fuoriclasse, Però c’era Dantone e a lui vanno gli applausi di una bella serata, quasi morbida, gustata dal pubblico come il famoso bicerin, la storica bevanda torinese, così amata, da non essere più valutata.
Ho assistito alla prima.
Le due contralto erano vergognose, non riuscivano a “passare” l’lorchestra, nemmeno nelle prime file si sentivano.
L’unica con una buona proiezione del suono era Alinda.
Forse era uno spettacolo più da camera??
Ma andassero a ripetizione dalla signora Casolla,.
Possibile che con una voce torrenziale come la sua, drammatica, abbia pianissimi più facili di queste voci piccole??
forse la signora casolla sa come si respira professionalmente!!!!
Verissimo!!! Una differenza abissale!